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TIA Janus

Predrag Matvejević

SEGNI, SENTIERI, SOLITUDINI
IVO ANDRIĆ FRA ORIENTE E OCCIDENTE

Nella vita e nell’opera di Ivo Andrić l’incognita maggiore è proprio lo stesso Andrić.

Non si confidava neppure con coloro che gli erano vicini. Non rispondeva alle domande che gli ponevano i curiosi. Non si lasciava facilmente avvicinare dagli altri. Non si confessava a nessuno. Non piangeva quando soffriva il più.

Si teneva a distanza dagli eventi. Vedeva rischi anche là dove non c’erano. Usava cautela anche dopo che i pericoli erano svaniti. Anche la protezione offertagli dalla sua notorietà non era per lui sufficiente. Fu solo anche quando erano in molti a stargli vicino.

Alle sue convinzioni non erano necessarie prove. Le prove portate da altri non gli parevano attendibili. Il palco dell’oratore non rispondeva al suo carattere. I discorsi dal palco non gli erano congeniali. Ai suoi atteggiamenti (tranne che a quelli della prima giovinezza) non era facile dare un significato. Il significato che altri vi attribuivano non gli sembrava affidabile. Coloro che si sono serviti del suo silenzio non hanno ottenuto ciò che volevano. Quello che hanno ottenuto non proveniva dalla sua opera.

La posizione che gli spettava (fra le due guerre fu diplomatico di una monarchia senza monarca, nel regime comunista fu cittadino d’onore) gli offriva sicurezza, ma non lo colmava di soddisfazione. Non si serviva della sua posizione per avvalersene come scrittore. Quest’ultimo riceveva molto meno di quanto non desse. Viveva chiedendo che lo si lasciasse "narrare liberamente" - non avrebbe potuto vivere altrimenti.

Sperimentò non solo la paura, ma anche "la paura della paura". Come quel personaggio che descrisse in un racconto, temeva ad ogni passo di inciampare - di fare un passo falso. Malgrado tutto procedeva con dignità. La sua andatura, misurata e signorile, non faceva trapelare l’inquietudine o la fatica. La suo solitudine nascondeva lo sforzo.

Il mestiere di scrittore lo spingeva alla ricerca delle parole - sapeva comunque che "le parole migliori sono quelle che cerchiamo invano". Ci ricordava che "una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata". La lingua fu uno dei suoi doni più preziosi, la sua passione la più tenace - ma era convinto che "nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato". Gli scrittori della sua generazione seguivano le varie correnti della letteratura moderna - per lui "un buon libro era la corrente letteraria migliore".

Si abbandonava al "corso delle cose", rendendosi conto di non poter cambiare le cose stesse e, soprattutto, influenzare il loro corso. A coloro che amano curiosare nella vita dello scrittore o nella sua officina letteraria rispose nei frammenti intitolati Znakovi pored puta (Segni sul cammino), pubblicati integralmente dopo la sua morte: "Dopo la nostra morte potete analizzare ciò che siamo stati e cosa abbiamo scritto, ma durante la vita solo quest’altro". All’inizio di questo stesso libro scrisse con amarezza: "La vita è tale che l’uomo spesso si deve vergognare di ciò che di più bello ha in sé, e addirittura nasconderlo al mondo, perfino a chi gli sta più vicino".

Andrić era piů solo di quanto non si potesse intuire. E’ difficile dire quanto ciň fosse una sua scelta e quanto un suo destino. Sentiva maggiormente la sua solitudine in occasione di manifestazioni pubbliche, in particolare quelle organizzate in suo onore. Lo osservavo da un canto durante i festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno a Sarajevo: lesse, con voce a malapena udibile e di malavoglia, come se parlasse di un altro, alcune frasi, brevi e semplici, forse addirittura banali. Lo scrittore si nascondeva dietro a delle maschere, che gli facevano da scudo. Doveva proteggere quella parte di sé a cui era legata la sua opera. Era la condizione per salvare l’opera stessa.

Da uomo saggio sapeva - e spesso lo sottolineava – che esiste sempre qualcosa di peggiore del male e che, all’epoca in cui viveva, la Jugoslavia non rappresentava, malgrado tutto, la peggiore soluzione. Di fronte alle sofferenze e all’asservimento subiti dagli Slavi meridionali, Andrić era stato fin dalla prima giovinezza un sostenitore dell’"idea jugoslava". Questa idea era forse, assieme alla letteratura, la sua più profonda passione. Il panslavimo lo interessava meno (gli "ismi" in genere suscitavano in lui una certa diffidenza). Questa è forse una delle ragioni per cui l’ex diplomatico della monarchia era entrato in un partito comunista allora in conflitto con il comunismo sovietico: la jugoslavità di Tito gli era abbastanza vicina. Nella "Jugoslavia socialista" l’idea del socialismo gli stava a cuore ben meno della sorte della Jugoslavia stessa.

Ho incontrato Andrić due volte. All’inizio degli anni Sessanta, in primavera, tornavo da un viaggio in Italia via Belgrado. A Milano avevo acquistato la traduzione del Ponte sulla Drina già pubblicata da Mondadori, e sulla rivista "Nuovo mondo", che ora non esce più, avevo letto un articolo di Leonardo Sciascia dedicato a quel romanzo: "é il libro di un uomo saggio che, nella misura in cui ha coscienza del passato, vive e sente il presente". Andrić non aveva ancora ricevuto il premio Nobel (sarebbe avvenuto alcuni mesi piů tardi, nell’autunno del 1961), e a quell’epoca non c’era troppa gente che cercava d’incontrarlo. Trovň così un po’ di tempo per ricevere il giovane e sconosciuto scrittore e assistente dell’Università di Zagabria, che timidamente gli faceva visita portando "buone notizie". Mi porse la mano in modo cortese e riservato, senza alcuna familiarità balcanica. Ringraziò per l’articolo di Sciascia sull’"uomo saggio" e sorrise con indulgenza. Mi invitò a sedere, facendomi capire che il lavoro lo aspettava.

Il nostro incontro fu breve. Io non avevo il coraggio di parlare e Andrić non era certo un uomo loquace. Lo pregai di farmi una dedica sull’edizione italiana del suo libro. Si soffermň un momento, esitň - prese una bella e antica penna stilografica e con la sua chiara grafia scrisse in lingua originale una frase del poco noto Codice di Leonardo da Vinci: "Da Oriente a Occidente in ogni punto è divisione". Non sapevo che cosa mi stupisse di più: Leonardo, di cui ero convinto che guardasse molto di più a l’Occidente e alla Francia, e non a l’Oriente e ai Balcani, o lo stesso Andrić, che conosceva perfino quei dettagli della cultura e della lingua del paese vicino…

Me n’andai confuso, non ricordo cosa dissi accomiatandomi. Il mio impaccio forse gli piacque e mi incoraggiò con una voce più cordiale di quella con cui mi aveva accolto. Uscii con l’impressione di aver fatto visita a un vecchio monaco e di averne interrotta la preghiera. Come se lui stesso appartenesse a uno di quegli ordini che aveva studiato preparando il suo lavoro su San Francesco d’Assisi. Era tuttavia più simile a un pastore protestante, capitato per caso nelle nostre terre, che a quei frati cattolici che descriveva nei suoi racconti, o ai popi ortodossi che io conoscevo."Né Roma né Bisanzio" era la formula scismatica del suo rivale croato Miroslav Krleža, nel momento in cui il nostro paese, in quanto "terza componente" (un altro termine di Krleža), si staccava dal blocco dell’Est. Ivo Andrić guardava insieme sia a Roma che a Bizanzio, senza perdere di vista neppure l’Islam - Oriente e Occidente, Europa e"altra Europa", Balcani e Dio sa che altro.

La seconda volta lo incontrai di nuovo a Belgrado, al Club degli scrittori, splendidamente gestito da un ex servitore del nunzio papale, un certo Ivo, anche lui. Ero seduto a un tavolo con Danilo Kiš, quando Andrić entrň con una signora alta statura, una traduttrice dei suoi libri in non so quale lingua. Fino a quel momento eravamo stati rumorosi e scapigliati, ma di colpo ci quietammo, assumendo un atteggiamento più conveniente e decoroso. Egli si accorse di noi e ci salutò con un cenno quasi impercettibile, come per farci capire che ci aveva riconosciuti. I nostri tavoli erano vicini, e potemmo così, senza manifestare un’eccessiva curiosità, osservare tutta la scena. Mangiò due uova sode e bevve un solo bicchiere di vino rosso. A quell’epoca mi ingegnavo a scrivere un saggio sui gesti caratteristici degli abitanti dei Balcani e del Mediterraneo (purtroppo non l’ho ancora portato a termine). Osservai che i movimenti delle spalle e delle braccia di Andrić, le espressioni del viso e degli occhi, non somigliavano a quelle che conoscevo: i suoi gesti erano, probabilmente, interiori. Non si trattenne a lungo al club. Estrasse il portafoglio, pagò con discrezione, come se non volesse offendere nessuno. Noi quella sera bevemmo meno e ci coricammo prima del solito.

Mi rendo conto che anch’io, come tanti altri, sto parlando di Andrić in modo tropo esterno. I biografi si soffermano di solito sulle date e sui fatti: nacque in Bosnia nel 1892, nella cittŕ di Travnik, piů probabilmente nel villaggio di Dolac o in qualche altra località vicino a quella città che, "al tempo dei Turchi" era la sede del visir ottomano; suo padre, Ivan Antun, faceva il domestico (ma lo scrittore in un colloquio corresse questo dato, aggiungendo che si occupava di "attività molitoria"); sua madre si chiamava Katarina, nata Pejić; il figlio fu battezzato in una chiesa cattolica; aveva due anni quando suo padre morì; la madre lo affidò alla zia Ana, senza figli, sposata al polacco Ivan Matovišèik, comandante della stazione della gendarmeria austriaca di Višegrad sulla Drina, sulla frontiera fra la Bosnia e la Serbia. La nuova famiglia lo accolse con amore. A Sarajevo frequentò il ginnasio e fu uno dei capi della "Gioventù serbo-croata" e membro della "Giovane Bosnia"; lì iniziò a scrivere; a Spalato finì in prigione come ispiratore della ribellione antiasburgica; frequentò l’università, in modo irregolare, a Zagabria, dove pubblicò due raccolte poetiche; per breve tempo fu iscritto anche all’ateneo di Vienna, e poi all’"Università Jagellonica" di Cracovia ("alla cultura polacca devo moltissimo", disse in una intervista). Non portò a termine gli studi universitari, ma a Graz le vecchie regole universitarie dell’ex Impero li permisero di fare una tesi di dottorato sulla "vita spirituale in Bosnia" sotto il governo ottomano: si preparava già a la ricerca alla quale si sarebbe dedicato negli anni successivi. Malato di tubercolosi, con l’aiuto di un amico si avviò alla carriera diplomatica. Questo gli permise di conoscere vari paesi europei e di apprenderne le lingue. Quando Hitler attaccò la Jugoslavia, Andrić ne era il rappresentante a Berlino. Durante l’occupazione tedesca visse a Belgrado, scrivendo i suoi libri più importanti. E lì rimase, con brevi interruzioni, fino alla morte, nel 1975.

Ognuno di questi scarni dati può essere completato con nuovi elementi, fino a costituire una biografia. Dietro ad essi si scorge forse la maschera dello scrittore, ma non il volto dell’uomo. Tuttavia Andrić ci ha lasciato qualche scritto in cui ha aperto la sua anima. I suoi primi ricordi sono legati alla piccola cittŕ presso il fiume impetuoso di Drina, ad un paesaggio composto di monti tetri e aride vallate. Nella Bosnia della sua infanzia c’erano più sentieri che carraie, più carraie che strade; di quest’ultime ce n’erano poche. Secondo la testimonianza dei rari viaggiatori, era proprio mancanza delle vie di comunicazione a difendere la regione cingendola come una muraglia cinese.

I sentieri dell’infanzia rivelano alcuni segreti della vita e forse alcune trame della opera di Andrić:

"All’inizio di tutti i sentieri e di tutti i percorsi, all’origine del pensiero stesso su di loro sta, forte e indelebilmente inciso, il sentiero lungo il quale per la prima volta ho cominciato liberamente a camminare.

"Questo accadeva a Višegrad, su quei viottoli duri, irregolari come fossero rosicchiati, dove tutto è arido e desolato, senza bellezza, senza gioia, senza speranza di gioia, senza nessun diritto alla speranza, dove un boccone amaro, che l’uomo non ha inghiottito del tutto, sobbalza in gola ad ogni passo, dove l’arsura e il vento e la neve e la pioggia divorano la terra e il seme nella terra, e dove tutto ciò che riesce ugualmente a germogliare e a nascere viene talmente segnato e piegato e ritorto che se ne potrebbe in qualche modo ripiantarne la cima nel suolo per restituirlo allo stato amorfo e all’oscurità da cui era spuntato (...)

"Su quei sentieri che il vento spazza e la pioggia lava e il sole appesta e disinfetta, sui quali si incontrano solo bestiame spossato e uomini taciturni dai volti duri, ho fondato il mio pensiero sulla ricchezza e la bellezza del mondo. E lì che, ignaro e debole e a mani vuote, sono stato felice di una felicità inebriante fino alla vertigine, felice di tutto ciò che lì non c’è, non può esserci e non ci sarà mai.

"E su tutti i sentieri e le strade che poi nella vita ho attraversato, ho vissuto solo di quella povera felicità, del mio pensiero višegradese sulla ricchezza e la bellezza del creato (…). Nei momenti in cui il mondo, dove per caso fortuito ho vissuto e per miracolo mi sono mantenuto in vita, mi stancava e mi avvelenava, quando l’orizzonte si oscurava e l’orientamento diventava incerto, io allora stendevo devotamente davanti a me, come un fedele il suo tappeto di preghiera, il duro, umile, sublime sentiero di Višegrad, che lenisce ogni dolore e cura tutti i mali perché tutti li contiene e tutti li sovrasta. Così, varie volte al giorno, approfittando di ogni momento di calma nella vita intorno a me, di ogni intervallo della conversazione, io percorrevo una parte di quel sentiero dal quale mai mi sarei dovuto allontanare.

"E così fino alla fine della mia vita, in segreto e di nascosto, potrò attraversare il lungo percorso predestinatomi dal sentiero di Višegrad. Ed è allora che, alla fine della vita, s’interromperà anche lui. E si perderà laddove finiscono tutti i sentieri, le strade e i luoghi impervi, dove non ci sono più né cammino né sforzo, ove tutte le vie della terra si aggrovigliano in una matassa ingarbugliata e si consumano nel fuoco, come in una scintilla di salvezza nei nostri occhi, che si spengono anche loro dopo averci condotto alla meta e alla verità."

 

Guai a uno spirito integro in un ambiente diviso, in cui nessuno è soddisfatto della sua parte e pretende di avere di più o addirittura tutto. Colui che, fra l’altro, era anche scisso al suo interno, doveva avere una vita ancora più difficile: croato di origine e cattolico per fede, serbo per adozione e dimora, bosniaco per nascita e per la matrice stessa della sua opera, jugoslavo per sua propria determinazione e appartenenza. Non era facile sostenere tutte queste differenze nel paese in cui era nato e dove è morto. I nazionalisti croati lo accusavano di aver tradito la propria nazione; i nazionalisti serbi cercavano di serbizzarlo del tutto, trascurando le altre sue componenti; i nazionalisti bosniaci di fede musulmana gli rimproveravano di aver descritto le sofferenze patite dalla popolazione cristiana sotto il giogo turco – dimenticando così la loro propria origine slava (e ignorando perfino il fatto che l’opera di Andrić aveva avuto una straordinaria accoglienza nella stessa Turchia). I veri jugoslavi, che si appellavano al suo esempio, erano pochi e deboli per difenderlo dalle passioni e dalle condanne nazionalistiche.

Che altro, se non una maschera, restava a quell’uomo fragile, che reggeva già a fatica il peso del proprio genio? Cosa poteva fare colui che è forse il maggior scrittore degli ultimi secoli nei Balcani?

Mi sono spesso chiesto, nel corso di questa guerra fratricida che ha segnato la fine del secolo e del millennio, come Andrić avrebbe reagito se ne fosse stato testimone. Alcuni anni prima della sua morte, quando un nazionalista scatenato lo attaccň a Zagabria come disertore, confidň ad un amico che avrebbe preferito essere già morto, piuttosto che sentire quell’accusa. E’una fortuna che non abbia visto come i cetnici di Milošević e di Karadžić bombardassero Sarajevo e Vukovar, fucilassero migliaia di abitanti di Srebrenica e, in nome di una grande Serbia,"ripulissero etnicamente" la sua Bosnia natia dai musulmani e dai croati; come gli ustaše demolissero Mostar e il ponte sulla Neretva, realizzando così la "missione storica" della Croazia di Tudjman, gettando in campi di concentramento gli erzegovesi di fede diversa e scacciando dai loro antichi focolari i serbi della Krajina.

L’uomo che aveva costruito i "ponti" e lo scrittore che con passione inaudita li aveva descritti è morto in tempo. La sorte ha voluto che non vedesse ciò che non si doveva vedere. Che non avrebbe mai dovuto accadere.

Quando i popoli che vivevano assieme s’incontreranno di nuovo e si daranno la mano gli uni agli altri rispettando quei valori che condividono, l’importanza di Andrić nel loro spirito e nella loro lingua sarŕ molto più grande di quanto non sia stata. Per questo non è necessario uno stato comune: quei valori non conoscono confini.

 

***

Ivo Andrić sarŕ probabilmente ricordato come uno dei grandi autori slavi il cui vero volto è rimasto per lungo tempo sconosciuto. Nemmeno il Premio Nobel per la letteratura ha avuto l’effetto che solitamente si prevede: in molti paesi la sua opera è rimasta a lungo poco nota. Il suo rifiuto di qualsiasi pubblicità, sotto qualunque forma, anche la meno vistosa, è stato forse una concausa di questa scarsa diffusione: "In ogni manifestazione pubblica", fa dire a Goya in un dialogo immaginario, "c’è qualcosa di indecente".

Pochi avvenimenti hanno scosso la vita culturale dell’ex-Iugoslavia quanto la sua morte. Come se il suo temperamento in apparenza calmo e distaccato rassicurasse gli abitanti di quel paese segnato da una storia tra le più tormentate e faziose d’Europa. Era riservato dinanzi alle "incertezze del giorno o del secolo", scettico rispetto a quello che chiamava "l’ebbrezza del momento", diffidente riguardo a tutto ciò che trovava "troppo immediato" o "non abbastanza maturo". Si era impegnato solo, come ho già detto, nelle file della Giovane Bosnia, il cui membro più noto, Gavrilo Princip, nel 1914 abbatté a Sarajevo il principe austriaco Francesco Ferdinando.

Cosa si poteva sapere, all’estero, delle trame che erano dietro quell’assassinio che fece esplodere la Prima guerra mondiale? Chi conosceva, in realtà, quelle regioni inquiete, per molto tempo ai margini della storia europea pur essendo in prossimità delle più antiche radici dell’Europa? Quelle contrade prostrate dagli asservimenti più crudeli che abbia visto il millennio appena trascorso? Qualcuno ha mai sufficientemente studiato - e fatto capire - le ragioni profonde di quella rivolta covata lungamente e la cui violenza costò la vita all’erede del trono asburgico?

Il giovane Andrić ammirava “quelle trame segrete dell’azione”, cosě come i gesti di coloro che "silenziosi e chiusi nelle loro camere male illuminate, preparano l’insurrezione". Benché non fosse tra gli insorti, le sue prese di posizione gli valsero la prigione e l’esilio nell’impero in declino. Le tracce di quelle esperienze segnarono il suo primo libro di prose poetiche dal significativo titolo di Ex Ponto (1918). Il tema della sua seconda raccolta non sarà meno evocativo: Inquietudini (1919).

L’Europa della sua giovinezza sembrava al nostro scrittore "piena di speranze indicibili e di pensieri inespressi", mentre il passo della storia gli pareva "pesante e quasi fatale". Alla vigilia dell’armistizio, che doveva riunire i popoli della Iugoslavia sotto l’egida della dinastia serba dei Karadjordjević, insieme con alcuni amici, lanciň a Zagabria la rivista Il Sud letterario, voce dei partigiani incondizionati dell’unità nazionale degli slavi del Sud. Tra il 1921 e il 1941, periodo in cui svolse attività diplomatica, Andrić soggiornò in Austria, Romania, Spagna, Portogallo, Italia, Francia, Svizzera. I libri usciti in quel periodo, raccolte di novelle, erano quasi tutti legati alla Bosnia.

Durante la Seconda guerra mondiale, non permise a coloro che collaboravano con gli occupanti di pubblicare le sue opere, chiudendosi in un silenzio solitario e laborioso. In quel periodo, riflettendo sulla storia del suo paese e su quella dell’Europa, scrisse i suoi capolavori Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik. Fu un atto di resistenza molto particolare, l’impegno inaspettato di uno scrittore che aveva sempre guardato con diffidenza la "litterature engagée".

Pur molto lontani dal modello ždanoviano che s’imponeva alle letterature della Jugoslavia di quell’epoca, i suoi romanzi-cronache ebbero subito un’accoglienza entusiastica (soltanto qualche pubblicista ufficiale, reso cieco dai precetti di un malinteso e schematico "realismo socialista", espresse delle riserve sulla sua "mancanza di ottimismo".) Andrić accolse con manifesta simpatia il disgelo ideologico e artistico, dopo la rottura tra Tito e Stalin.

L’incomparabile limpidezza del suo stile, sobrio e incisivo, evoca la lunga tradizione orale della poesia popolare e delle leggende del suo paese (tradizione che si era consolidata sotto l’occupazione ottomana, durante la quale l’uso della scrittura fu raramente accessibile alla popolazione indigena). Un’eleganza sprovvista di qualsiasi artificio, unita ad una raffinatezza naturale e colta, aveva fatto di Andrić un classico delle lettere tanto iugoslave quanto slave in generale, comparabile a Gogol’ o a Čechov. Una costanza e una coerenza piuttosto rare ai nostri giorni caratterizzano l’opera di Andrić fin dalle sue prime poesie e dal suo esordio di novellista, con lo straordinario racconto Il viaggio di Alija Đerzelez.

Se il giovane cristiano, lettore precoce di Kierkegaard, si era evoluto verso un apparente agnosticismo, lo scrittore non cambiò sostanzialmente nulla nel prosieguo del suo lavoro. Egli continuò a mettere in risalto "le virtù semplici" degli abitanti di quegli "ambienti miseri che sono la scena delle grandi cose e dei veri miracoli": serbi, croati (rispettivamente ortodossi e cattolici, con i loro antenati bogomili), musulmani d’origine slava, ebrei, zingari e altri ancora.

Una tale determinazione avrebbe potuto cedere alle tentazioni ben note del romanzo storico, con le sue varianti patetiche o edificanti, sentimentali o pittoresche, passatiste o nazionaliste. Niente di simile. Nessuna specie di romanticismo né delle sue diverse metamorfosi si riscontra nelle opere di Andrić. Poche cose in comune con uno Stefan Żeromski o, ancora meno, con un Sienkiewicz, e neanche con il Boris Godunov di Puškin. Lo scrittore, nato nei Balcani, non dimentica neppure per un momento "che il male, la sventura, l’inquietudine fra gli uomini sono elementi stabili e costanti e che nulla di tutto ciò può essere cambiato: ogni passo che facciamo ci porta verso la tomba".

Nel romanzo storico, soprattutto in quello romantico, spesso la storia era in primo luogo l’evocazione del passato, una cornice in cui si svolgeva l’azione, talvolta solo una quinta che usava "la couleur locale" o il folklore. Guerra e pace di Tolstoj è forse, nella letteratura europea, il primo romanzo della storia, in cui la storia diventa contemporaneamente il soggetto e l’oggetto, la sostanza o il plasma dell’opera stessa. Alcuni romanzieri del novecento hanno compreso quel procedimento e lo hanno adottato e modificato: Marguerite Yourcenar in Memorie di Adriano, Hermann Broch in Morte di Virgilio, Stefan Zweig nel suo libro su Erasmo, e per certi aspetti, fra gli altri, Merežkovskij e Hrabal nelle letterature slave.

J’ai tenté plus d’une fois de dégager l’attitude d’Andric’ vis-à-vis de l’histoire et du passé afin de définir sa propre contribution à ce que je propose d’appeler roman de l’histoire. Les trames - anegdotes, événements, personnages - émergent du magma du passé pour s’offrir d’abord comme un répertoire de récits, de scènes ou d’arguments - une matière à oeuvre. Le narrateur peut en disposer et l’utiliser sans aucune contrainte relevant de la méthodologie et de la discipline propres à l’histoire même. Il décide à un moment donné de devenir un complice de cette dernière sans se priver pour autant de ses droits légitimes de fabuliste ou, si l’on préfère, de ses privilèges de créateur. Dans la mesure où il y réussit, il se libère de toute obligation de commenter ou d’édifier, utilisant les archives vraies ou apocryphes, selon les procédés dont il reste aussi bien l’arbitre que l’artisan, construisant ou « déconstruisant» son discours d’après sa propres vision. Walter Benjamin a fait à ce sujet des remarques fort pertinentes :il s’agit de « rompre avec la version vulgaire du naturalisme historique(…),d’ériger les grandes constructions à partir d’éléments minuscules, confectionnés avec acuité et tranchant(…), de découvrir alors dans l’analyse du plus petit moment individuel le cristal de l’événement global». Ceci permet, ajoute l’auteur de Paris, capitale du XIX siècle, de « saisir l’histoire en tant que telle » et, en même temps, de reléguer « à la structure d’un commentaire - les déchets de l’histoire.»

A cette tentative s’associe une autre, analogue et probablement complémentaire. Elle s’emploie à affronter l’histoire à rebours, la présentant en tant qu’une grandiose « opérette », comme l’a fait Witold Gombrowicz dans la pièce qui porte ce nom: »L’idiozia monumentale dell’operetta, imparentata col pathos monumentale delle Storia » , un’operetta che »cresce in demenza, afferrata dal turbine della Storia ».

Quant au passé qu’une histoire de la nation, du peuple ou de la tribu observe ou projette à travers les « grilles », «prismes » ou «loupes » qui, selon les convenances, agrandissent ou amenuisent les proportions tant de l’événement lui-même et que de la mythologie qui l’accompagne, le roman de l’histoire dans le sens où nous l’entendons ici (depuis Tolstoï et les autres exemples déjà cités), tend à s’émanciper de tout ce qui est extérieur à sa propre démarche. Il a pu ainsi, avant la «nouvelle histoire », appréhender les événements non seulement à partir de leur émergence ou de leur visibilité, mais de l’intérieur, en fonction des causes et effets qui les auraient engendrés ou fait ressurgir.

Le roman historique a été souvent considéré comme un genre de prose au sein de la littérature. Le roman de l’histoire devient une sorte postulation qui n’est pas seulement littéraire. Andric’ s’en est rendu compte en se penchant par son œuvre sur le destin de la Bosnie, de « tout un monde » qu’elle résume ou reflète. Nel superare il romanzo storico verso una sorta di romanzo della storia, egli ha tenuto conto della differenza sostanziale fra la storia stessa e il passato.

La maggior parte del passato non è storia: il primo è più o meno informe e spesso illeggibile, la seconda cerca di dare senso ai fenomeni e agli eventi che accadono e le cui conseguenze rimangono riconoscibili. Ogni comunità etnica o nazionale per une parte più o meno consistente della sua "lunga durata" è stata a-storica: esisteva già prima del tempo storico, oppure si è trovata all’ombra e ai margini di una storia altrui, in balia di movimenti e interessi estranei, senza direzione e determinazione proprie. C’erano per Andrić parti del mondo "che la storia non aveva sfiorato o attraverso le quali era forse passata, affrettandosi in altri luoghi ai suoi lontani traguardi, e lasciandole nell’ombra nella loro grigia esistenza senza nome e nel meccanico alternarsi delle monotone funzioni dell’esistenza vegetale e animale, della crescita e del logoramento". L’idea della filosofia classica (ad esempio di Hegel), secondo la quale i popoli senza uno Stato proprio non hanno accesso alla storia, si è prestata a volte a vari tipi di manipolazione. Gli studi etnografici, le cui conclusioni spesso si limitano al comparativismo, o quelli antropologici, che generalizzano le"strutture" o definiscono i"modelli", non sono di grande aiuto alla scrittura narrativa. Il "progetto nazionale" di Andrić (se cosě possiamo chiamare alcune tendenze interne della sua opera) cercava in qualche modo di riabilitare un’esistere a cui non era stato concesso di iscriversi nella storia. Tentava, con l’aiuto della letteratura, di creare l’indispensabile inventario della coscienza storica, mantenendo nel contempo tutte le prerogative della letteratura come tale.

Tentativi di questo tipo si possono osservare in diverse culture: fino a ieri in varie parti dell’Europa stessa, oggi in diversi paesi dell’Asia, dell’Africa, del Sudamerica, ovunque le nazionalità e gli Stati cerchino di inserire il loro passato nella contemporaneità - di vedere il proprio volto nello specchio della storia. Andrić è uno dei grandi precursori di una simile impresa, tanto più che non ha subordinato ad essa le esigenze della forma e il rigore dello stile.

La poetica e la filosofia di Andrić (che avrebbe difficilmente accettato questo ultimo termine) si trovano forse meglio espresse nel Ponte sulla Drina, grande affresco del brulichio umano nella borgo di Višegrad, il cui destino si organizza intorno a un ponte su un fiume che continua a scorrere, indifferente. I secoli sordi e oscuri, appena illuminati qua e là da qualche luce esitante, passano tutti come l’acqua della Drina. Le generazioni muoiono e si succedono, simili le une alle altre, e si lasciano dietro, come unica eredità, qualche traccia difficilmente riconoscibile,ricordi impalliditi, segnali fugaci, testi narrati e talvolta scritti, leggende trasmesse dagli avi ai nipoti: "Le lunazioni si susseguivano e le generazioni sparivano rapidamente, ma il ponte restava, immutabile, come l’acqua che scorreva sotto le sue arcate. Invecchiava anche lui, ma secondo una scala di tempi ben superiore non soltanto alla durata della vita umana, ma addirittura a una sequenza di generazioni". La costanza di una tale costruzione insegnava "che la vita è un prodigio incomprensibile, perché essa si consuma senza tregua e si sfalda, eppure dura e persiste, indistruttibile, come il ponte sulla Drina".

Il narratore si guarda bene dal fare dei suoi ponti (altri ponti appaiono nei suoi racconti, molti di essi sono ora distrutti!) un’ingenua allegoria, dal lasciarsi tentare da un repertorio d’immagini banali. "Ogni volta che evoco i ponti mi tornano in mente non quelli che ho attraversato, ma quelli che hanno più impegnato il mio spirito (...), quelli che segnano i luoghi in cui l’uomo si è trovato a confrontarsi con un ostacolo. I ponti non sono mai al servizio di forze misteriose o cattive. Grandi ponti di pietra, testimoni di epoche esaurite in cui si viveva, pensava, costruiva diversamente". Questa confessione appare in un saggio poetico di Andrić, intitolato proprio I ponti.

Il ponte sulla Drina costituisce un asse intorno al quale si concentrano le vite discordanti degli uomini e che dà forma al destino delle comunità: "Scuoteva via, come fossere polvere, tutte le tracce lasciate dai capricci e dai bisogni effimeri degli uomini, rimanendo a dispetto di tutto, inalterato e inalterabile". Il modo in cui è sortte e si espande il borgo di Višegrad, i modi di vita e i modelli di comunicazione che si strutturano in essa intorno al punto cardinale costituito dal ponte stesso: vi è presente o presentita tutta un’antropologia, che fa curiosamente pensare a certe descrizioni di Lévi-Strauss, che essa, d’altronde, precede. Si rende così più intelligibile un passato opaco: si restituisce in qualche modo la storia al popolo che ne era stato privato, offrendogli una pergamena che rispecchia la sua vita senza splendore e gli permette di riconoscere se stesso e, ad un certo punto, d’identificarsi.

Il narratore vede sorgere dalle tenebre qualche lampo di coscienza, velleità o volontà di scuotere e di rimuovere alcuni ostacoli. Andrić tuttavia evita di assumere qualsiasi atteggiamento da tribuno, anche quando, intorno al 1914, sul lastricato del ponte si fanno avanti le discussioni dei suoi compagni della Giovane Bosnia. Ci ricorda "che una nuova vita è un miscuglio di vecchio e di nuovo". Gli pare che niente possa meritare un’esaltazione eccessiva, tranne forse certi istanti rarissimi: "gli angeli in rivolta, durante quel breve momento in cui hanno ancora tutti i diritti degli angeli e tutto il potere dei ribelli". Niente di quanto avrebbe potuto traapelare dal momento storico e politico in cui il libro fu scritto appare mai manifestamente. Solo, alla fine dell’opera (nella prima edizione), una brevissima nota ricordava: "Belgrado, anno 1942".

Anche l’altro capolavoro, La cronaca di Travnik porta una nota simile: "Belgrado, aprile 1942". Si potrebbe dire che i tempi di questa cronaca romanzesca sono molto più ridotti, se a contare in questo caso fosse la misura del tempo reale. La cittadina bosniaca di Travnik doveva emergere dalle nebbie tra l’ottobre 1806 e il maggio 1814, sfiorata improvvisamente dalla storia: Napoleone apre a Travnik un consolato. Per non lasciargli alcun vantaggio, l’Austria fa altrettanto. Questi fatti, apparentemente privi di un vero interesse storico, sono chiamati a coprire un ruolo analogo a quello del ponte sulla Drina a Višegrad: sembra che anche qui la vita possa strutturarsi intorno ad un evento fondante. La popolazione, poco avvezza ai cambiamenti, disapprova i nuovi venuti che scompigliano il tran-tran abituale. Vedremo anche, sullo sfondo, la raïa (termine peggiorativo con il quale gli invasori ottomani designavano il popolo), serbi e croati, i primi guidati dai loro popi (filo-russi e conseguentemente anti-napoleonici) e i secondi dai loro frati francescani (anche essi ostili a Napoleone a causa dei suoi rapporti con la santa sede, e piuttosto favorevoli all’Austria cattolica); accanto a loro una piccola comunità ebraica; al di sopra di tutti, i turchi, con la loro singolare gerarchia culminante nell’onnipotente visir, conquistatori venuti da lontano che cercano di accattivarsi gli indigeni slavi islamizzati. In mezzo a questo brulichio si trovano il console francese Daville con la sua famiglia; e il giovane vice-console Des Fossés, circondato da un personale consolare reclutato chissà come; di fronte stanno i loro omologhi austriaci. Mescolanza etnica e storica ad un tempo, guazzabuglio di credenze e di tradizioni diverse, punto d’incontro di mentalità divergenti.

L’interesse si concentra, in modo quasi impercettibile, sull’incontro tra Oriente e Occidente, sulla reciproca incomprensione accentuata dall’arretratezza dell’ambiente. Estranei ad un’atmosfera sottilmente evocata, che non indulge mai al folclore da bazar, i due francesi occupano il primissimo piano: il bonario Daville, autore di qualche articolo pubblicato su Le Moniteur parigino e poeta d’occasione, sembra rappresentare coloro che non avevano capito quasi niente della Rivoluzione e che tuttavia avevano seguito - e magari ammirato - Napoleone, senza poi troppo rimpiangerne la caduta. Per contro, il giovane Des Fossés, figlio di una nuova epoca, annuncia con discrezione un altro comportamento, se non un nuovo tipo d’uomo (un Julien Sorel che, pur appassionato della propria impresa, non si lascerebbe mai dominare dall’ambizione).

Qui la leggenda non può avere lo stesso spazio che nell’opera precedente: ci troviamo di fronte a una storia vera e verificata che elimina ogni elemento leggendario o lo riduce a una proporzione minima. Una sorta di "maledizione" aleggia sulla Bosnia, "paese muto, fatto di silenzio e di incertezza", dove si ha l’impressione, seguendo i rapporti di Daville (rapporti autentici, trovati negli archivi francesi), che "niente in quel mondo si lascerebbe pacificare né regolare". Uno dei tre visir che si succedono nel racconto, apparentemente affabile, arriva persino a mostrare ai suoi ospiti stranieri, durante un ricevimento ufficiale, delle orecchie mozzate di insorti serbi. Soltanto Des Fossés riesce a penetrare dentro a quel mondo e al suo passato contraddittorio. Araldo di una storia nuova, si rende conto che "la cattiveria e la bontà di un popolo sono il prodotto di circostanze". In certi momenti, si sente dalla sua bocca la lezione illuministica dell’Encyclopédie, diventata racconto grazie all’arte dello scrittore.

Fra la strana fauna che frequenta i consolati, il medico Cologna, un meticcio "originale", ci rivela il vero destino dell’uomo del Levante: "è colui che penosamente si divincola tra Oriente e Occidente, senza appartenere né all’uno né all’altro, ma rimane colpito da entrambi. Sono le vittime di questa fatale separazione fra cristiani e non-cristiani. Si tratta di una piccola umanità separata che geme sotto un doppio peccato originale e che dovrebbe ancora una volta essere riscattata e salvata, ma che non riesce a vedere da chi potrebbe esserlo, né in che modo. Sono uomini che vivono su frontiere fisiche e spirituali, su una linea nera e insanguinata. Quella linea, per via di un malinteso assurdo e duro, è stata tracciata in mezzo a uomini che non dovrebbero incontrare frontiere fra loro". E’ possibile colmare questa frattura quasi metafisica? L’autore evita di rispondere alla questione. Si limita a suggerirla.

Nel momento in cui l’Impero sarà davvero "logorato", nel 1814, la Francia non avrà più bisogno di un consolato in "un borgo in capo al mondo". L’Austria nemmeno. La vita opaca e monotona degli abitanti di Travnik, turbata per più di sette anni di avvenimenti inquietanti, ricomincerà a stagnare: "La paura cambia nome,e le preoccupazioni cambiano forma. E i visir si succedono. L’Impero si logora. Travnik langue, ma la sua gente vive ancora, come il verme in una mela caduta". Che cosa ne sarà domani in Bosnia?

La questione posta in questi termini sembra conservare - ahimè! – tutta la sua attualità. In un altro saggio l’autore è più esplicito rispetto a tali temi: in questi luoghi si è svolto "non solo il conflitto di due fedi, nazioni, razze,ma anche lo scontro di due elementi, l’Oriente e l’Occidente; e il destino ha voluto che quella lotta si svolgesse soprattutto nei nostri territori; e che tagliasse a metà e dividesse la nostra unità nazionale con il suo muro insanguinato".

Nelle prime pagine del Ponte sulla Drina appare una delle scene tra più crudeli della letteratura del novecento. Il narratore descrive spietatamente l’impalamento di un s ribelle serbo sotto l’impero ottomano: «Un palo di quercia lungo circa tre metri, ricoperto di ferro battuto, con una punta sottile e aguzza»; un uomo vivo, «infilzato a questo palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena - e non erano stati lesi in modo grave né l’intestino, né il cuore, né i polmoni». Occorre un’operazione altamente professionale e sofisticata per evitare lesioni degli organi vitali, diversi strumenti con i quali spingere a poco a poco il palo nel corpo. La vittima deve sopravvivere così alcuni giorni: «gonfia, impettita e nuda fino alla cintola», «fissata tra due travi» sputando «una schiuma bianca», gridando e ringhiando. È la sorte che aspetta il ribelle.

Se ne possono immaginare a migliaia di questi esseri umani nel corso dei secoli, lungo i sentieri fangosi dei Balcani, nei loro crocevia variopinti. La sofferenza così incarnata, "il male interiorizzato" in questo modo, la rivolta o la vendetta che suscitano, tutto ciò non è "conservato" o "decantato" solo all’interno del corpo martoriato o nel fondo della memoria, ma anche da qualche altra parte: non sappiamo esattamente né dove né come! Un giorno le circostanze risvegliano questi stati d’animo torbidi e traumatici, li attivano facendoli manifestare sotto forma di resistenza o di aggressione, di sacrificio o di crudeltà.

A scuola ci hanno insegnato che, proprio grazie ai supplizi subiti dai nostri avi, Vienna non è mai stata conquistata dalle «orde asiatiche», così come neppure Venezia o Trieste, che senza questi sacrifici non ci sarebbero stati il Rinascimento in Italia e nemmeno la prosperità della Mitteleuropa. «L’abbiamo pagata con il nostro sangue». Abbiamo contribuito così a «salvare l’Europa e creare la sua civiltà».

Andrić conosceva bene il paese in cui era nato e aveva vissuto - i Balcani. Sentiva che in un territorio così eterogeneo gli eventi subivano nello stesso tempo fusioni, contaminazioni, dispersioni.Molto spesso vi si ricomincia daccapo invece di continuare. Non si riesce a conservare quanto si è acquisito. Si cercano giustificazioni in epoche trascorse, con le quali si sono rotti i legami. Si perde tempo rifiutandosi di ammettere che la rotta lungo la quale si navigava era sbagliata. Le alleanze contratte vengono rescisse senza validi motivi, gli accordi annullati senza alcuna necessità. Il ricorso a tradizioni già esaurite o a ideologie ormai consunte crea l’illusione della stabilità o della costanza. Nel suo immaginario Colloquio con Goya, che ci rivela la più intima poetica di Andrić, lo scrittore pone in bocca al pittore spagnolo una diagnosi adeguata a questa condizione: "Tutte le nostre idee portano il carattere strano e tragico degli oggetti salvati da un naufragio".

E’ forse stata esagerata, malgrado tutto, la distanza di Andrić rispetto all’attualitŕ, la sua apparente defezione di fronte al momento presente. Il suo testo La Corte del diavolo (cominciato nel 1928 e concluso nel 1954) descrive l’orribile spettacolo del carcere di Istanbul che porta quel nome terrificante, vero luogo di maledizione dove s’incontrano indifferentemente tanto persone accusate di un delitto effettivamente commesso quanto persone solo "sospettate per un errore". Un prete cattolico trasmette il racconto del defunto fra Petar, riprende e riassume la sua esperienza in quel luogo fatale: "Vi si trovano delinquenti piccoli e grandi (...); vi sono innocenti e persone accusate a torto"(…) "il sospetto si diffonde in lungo e in largo". Questa diabolica prigione "piega insensibilmente gli individui e li assoggetta a sé, alterando la loro personalità. Ed essi dimenticano ciò che sono stati e sempre meno pensano a quello che saranno, cosicché il passato e il futuro si fondono nell’unico presente che è la straordinaria e terribile vita della Corte del diavolo".

Questa descrizione è molto di più di una semplice allusione al terrore e alla dittatura. Il libro non era solo un’anticipazione delle testimonianze che oggi possiamo leggere sui campi di concentramento e sui "gulag": l’autore ne ha definito lo spirito esprimendone ad un tempo la crudeltà reale e quella mitica. Il giovane Ćamil, un "meticcio"nato a Smirne da padre turco e madre greca, si era identificato nei suoi sogni - e anche nelle sue ricerche erudite - con il destino del defunto sultano Gem. E’ questa la prova che egli ordisca un complotto contro l’attuale tiranno ottomano? Poiché ne è sospettato, bisogna metterlo in carcere. "Nessuno è qui per caso", constata Latif-aga, signore assoluto di quel luogo e appassionato artigiano del suo mestiere. "Chi ha varcato la soglia di questa Corte, non è innocente. Qualcosa ha commesso, magari in sogno".

Ha avuto meno successo presso la critica il romanzo La Signorina, che Andrić ha pubblicato in 1945 (credo che sia stato letto solo in una delle sue dimensioni, troppo esteriore). Narra dell’avarizia, reale e simbolica ad un tempo, di una zitella che rinuncia alla vita sacrificandola ad un presunto dovere. Il suo ascetismo si trasforma sempre più in vizio pernicioso. Diventa forse simile alla mania di risparmio o di "tesoreggiamento" dei dati e dettagli che raccoglie e accumula chi scrive un’opera letteraria?

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La parafrasi secondo la quale "narratori si nasce e romanzieri si diventa", può benissimo essere applicata ad Andrić: i suoi romanzi assemblano brillanti collane di novelle. Giŕ le sue prime raccolte di poesia in prosa contenevano in germe dei racconti futuri. La brevissima favola intitolata Storia giapponese rappresenta una forte apologia dell’indipendenza dell’artista: uno scrittore abbandona dopo la vittoria i suoi alleati con i quali si era impegnato nelle lotta comune; e s’ allontana dal loro potere.

Certi racconti andrićiani hanno l’ampiezza di brevi romanzi -è in particolare il caso dei Tempi di Anika, di Mara la concubina e dello straordinario L’Elefante del visir, parabola filosofica sulla mentalità totalitaria. Varie novelle potrebbero essere classificate secondo le epoche a cui si riferiscono: i tempi dell’occupazione ottomana, l’epoca della dominazione austro-ungarica, la contemporaneità (che comincia soltanto dopo la Prima guerra mondiale) e, infine, una temporalità indefinita. Dei manoscritti trovati nell’archivio personale è stato pubblicato postumo un romanzo incompiuto: una sorta di cronaca di Sarajevo intitolata Omer-pascià Latas, storia d’un serbo nato in Croazia che tradì l’Impero asburgico diventando uno spietato condottiero turco, "la sciabola nella mano del sultano". Dopo la morte dell’autore sono usciti anche numerosi racconti, saggi, articoli e, inoltre, alcuni brani sconosciuti del diario di bordo col titolo Segni lungo il cammino nonché gli scritti poetici di varie epoche intitolati Quello che sogno e ciò che mi capita. Quali sarebbero stati i sogni dello scrittore e i suoi segni durante questa nuova guerra nei Balcani, nella sua Bosnia natia? Mi sono posto mille volte tale domanda ma senza trovare una risposta.

Ivo Andrić ha scritto, fra i numerosi racconti, una Lettera del 1920. Mentre l’ultima guerra infieriva nel nostro paese, questo testo è stato tradotto in Dio sa quante lingue e il suo contenuto è divenuto oggetto di malintesi e anche di manipolazioni. Merita per questo qualche osservazione.

Aspettando un treno in una stazione di provincia - nei Balcani i treni sono sempre in ritardo - il narratore incontra un vecchio compagno di scuola Maks Levenfeld, di origine ebraica sefardita, che si accinge a lasciare la Bosnia e la Iugoslavia appena unificata. Durante la notte a Sarajevo,racconta Levenfeld, ha sentito suonare la stessa ora, a intervalli più o meno lunghi, dalla cattedrale cattolica, poi dalla chiesa ortodossa e infine dalla torre Sahat della moschea del Bey. "Dio solo sapeva che ora fosse per gli ebrei, che la si calcolasse alla maniera sefardita o alla maniera ashkenazita". Quattro calendari che non riescono ad accordarsi - "i fossati che separano le diverse confessioni sono così profondi che soltanto l’odio riesce qualche volta a superarli", "i volti emaciati e sinistri si incrociano vicino ai luoghi di culto", "i vecchi istinti e lo spirito di clan (restano) nascosti in fondo alle anime". Tutto questo spinge Maks Levenfeld, medico e umanista, a lasciare il paese dove ha visto la luce e sentito per la prima volta il mormorio del fiume Miljacka che attraversa la città di Sarajevo. "Tutto ciò che potete avere di più sacro si trova al di là di monti e valli, mentre l’oggetto del vostro disgusto e del vostro odio è qui, vicino a voi. Amate ardentemente la vostra terra natale, ma in tre o quattro modi che si escludono a vicenda e si scontrano frequentemente, con un fervore che genera un’ostilità senza tregua".

Il medico che inviò al narratore la lettera dalla quale sono tratti questi passi emigrò in Francia fra le due guerre mondiali, dove in una periferia parigina curava gratuitamente i suoi compatrioti emigrati. Poi in Spagna, morì in un ospedale dell’esercito repubblicano bombardato dagli aeroplani fascisti nel 1938, "in un borgo aragonese del quale nessuno dei nostri riusciva a pronunciare correttamente il nome. Questa fu la fine di colui che aveva rifuggito l’odio".

L’altro volto dell’odio è la vendetta. Tra l’uno e l’altro c’è la memoria. Quest’ultima prende talvolta la forma di una maledizione.

Sarebbe ingiusto assumere, a dispetto di tutto, che Ivo Andrić non vedesse negli sguardi dei suoi compatrioti nient’altro che questi istinti maligni. Molte delle sue pagine sulla Bosnia, e più particolarmente su Sarajevo, sono impregnate di speranza e di fede nell’intesa fraterna tra gli slavi del Sud. In occasione dei censimenti della popolazione, dopo la Seconda guerra mondiale, Andrić si faceva registrare semplicemente come iugoslavo, senza altri attributi nazionali. Era convinto che, attraverso i secoli del passato e della storia di quei popoli, fossero nati anche tanti legami reciproci, comprensione fra gli uni e gli altri, buon senso, amore e generosità. I migliori tra noi si sono adoperati per la nostra unificazione e hanno sperato di poter conservare l’unità del paese. Ciò che resta da scoprire e da spiegare, sia per noi che per gli altri, è come l’odio abbia potuto a tal punto prevalere sull’amore, la ristrettezza di spirito sulla generosità. Come il male proveniente da chissà dove – dal passato o dalla storia - abbia potuto opporsi al buon senso, soffocare la comprensione. E’ ciò che ha intuito, forse per primo, questo grande scrittore iugoslavo.

Qualche volta la letteratura va presa sul serio.

 

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Il comitato per il Premio Nobel ha rilevato in Andrić "la forza epica con la quale ha saputo ridefinire i temi della storia del suo paese". Ha sottolineato il modo in cui "questa opera fonde un fatalismo venuto dalle Mille e una Notte con un’analisi psicologica moderna. Come scrittore, Andrić possiede una rete di temi originali che appartengono solo a lui: apre per cosě dire la storia del mondo a una pagina sconosciuta e, dal profondo dell’anima slava balcanica, sollecita la nostra sensibilitŕ". Nel discorso pronunciato in occasione dell’assegnazione del Nobel, il premiato (un po’ confuso per timidezza o forse per scarsa pratica di cerimonie) indicava come modello narrativo supremo colui che, "alla maniera della leggendaria Shahrazŕd s’impegna per far pazientare il carnefice, per cercare di sospendere l’inevitabile condanna a morte e di prolungare l’illusione della vita e della sua durata". E concludeva: "Bisogna lasciare che gli scrittori raccontino"

Andrić è uno dei rarissimi narratori europei che abbia saputo assimilare a tal punto una scrittura, proveniente dall’Oriente, in cui la massima complessitŕ tende a esprimersi con un’estrema semplicitŕ. Il sogno del "divano occidentale-orientale" (west-¨ostlich) di memoria goetheana ha trovato nel sogno dei sentieri di Višegrad una sua realizzazione.

Ce phénomène mérite de s’y arrêter pour conclure notre propre récit. Les routes et les directions menant vers un Orient fabuleux et riche de merveilles ont souvent changé de direction et se sont plus d’une fois déplacées. Pour un Victor Hugo, qui a pu voir dans son adolescence les traces qu’ont laissées les Arabes et les Juifs sur la péninsule ibérique, l’Orient fut en quelque manière à l’Ouest de l’Europe - en Espagne -même. Pour un Délacroix ou, plus tard, un Paul Klee, cela aura été bien plus au Sud - vers le Magreb. Pour plus d’un écrivain romantique ce fut Venise avec son faste, bien avant le Levant, Jérusalem ou Constantinople. Les itinéraires tracés vers l’Est asiatique, à la suite de Marco Polo, s’ inscrivent de diverses manières sans arriver à établir une relation directe avec les contes que l’on aurait pu entendre sur ce chemin. Les descriptions de ces espaces ont longtemps utilisé une palette haute en couleur pour peindre nombre d’objets de bazar et de coutumes de sérail (pensez aux travestissements d’un Pierre Loti, qui n’était pourtant pas dépourvu de talent). Sauf dans de très rares exceptions, la plume de l’écrivain européen restait en deçà du rêve qui lui inspirait son voyage dans les contrées inconnues, loin de la véritable image des choses qu’il s’agissait d’approcher et de découvrir. Comme si ces choses, et leur nature même, ne pouvaient s’exprimer dans les modes d’écrire et de narrer qui nous sont familiers, qui relèvent de nos traditions.

Andric’ s’est mis, dès ces premiers récits, à chercher une écriture susceptible de raconter à sa façon les mille et une nuit de sa Bosnie natale. La culture qui venait du Levant et de l’Est par l’intermédiaire de l’Empire turc et de l’islam s’offrait à son observation. « Regardez, prêtez l’oreille pour un instant à ce silence que vous pouvez rencontrer dans les mosquées, le tekkés (couvent de dérviches – N.d.a.), les médarsas (école musulmane N.d.a.) et plus généralement en tout ce qui appartient au monde islamique. Ce silence glacé a sa beauté qui vous accueille comme un mur invisible. Le monde musulman m’a appris à adopter ce silence et à en faire un conseiller bien utile dans ma vie.» Le narrateur, qui raconte sa fable d’une voix silencieuse, à peine audible, cherche en réalité une poétique du taciturne.

C’est là que se trouve l’une des plus marquantes innovations qu’apporte cet écrivain aux lettres européennes. Il a compris, dès son départ, l’une des vertus essentielles des formes de narration qu’il essayait ainsi d’adopter et de recréer : la différence entre simplicité raffinée et une banalité conventionnelle qui prend d’ordinaire sa place. L’auteur d’Un pont sur la Drina a su éviter plus d’un danger que comporte un tel choix.

Andrić non pretendeva mai di sfoggiare risposte né tantomeno di risolvere problemi. Non si avventurava verso facili conclusioni: “Non tiro nessuna conclusione dai fatti, i fatti, perň, li vedo". Dinanzi a un divenire che sembra ad un tempo uguale e diverso, lui interviene il meno possibile, assumendo apparentemente la funzione di cronista o di scrivano. Contemporaneamente però si dimostra capace in ogni momento di superare i limiti imposti da ciascuno di questi ruoli. Trova così una sua soluzione originale alle convenzioni del romanzo tradizionale, una posizione che si potrebbe collocare tra il realismo ponderato di Tolstoj o di Thomas Mann e la realtà fantasiosa di Michail Afanase’viè Bulgakov o di Borges, ma in modo assolutamente indipendente da ognuno di loro.

Davanti ai paesaggi e ai volti umani, Andrić si guarda bene dal “violarli con un facile paragone o con una metafora vanitosa”. In tempi di retoriche assordanti e di programmi fallaci una simile modestia è sorprendente.