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TIA Janus

Marco Dogo

Una nazione di pii mercanti.
La comunità serbo-illirica di Trieste,
1748-1908

Estratto da: Storia economica e sociale di Trieste, a cura di Roberto Finzi e Giovanni Panjek, vol. I, La città dei gruppi 1719-1918, LINT, Trieste, 2001.

"Sollecita di rendere di giorno in giorno più ampla la Città, e Porto di Trieste"[1], nel 1751 Maria Teresa accordò libertà di culto e di organizzazione comunitaria ai forestieri di religione greco-orientale non unita[2], che a Trieste si stabilissero per esercitarvi la mercatura. Nel 1781 la comunità ortodossa triestina si divise formalmente nelle sue due componenti etno-linguistiche, greca e "illirica". Nella trentina d’anni fra quelle due date affluirono a Trieste un po’ più di 150 cristiano-ortodossi di parlata slavo-meridionale. Spesso transitando per la Dalmazia veneta, provenivano in maggior parte dall’entroterra erzegovese ottomano. Nel Porto Franco commerciarono con successo, e contribuirono per una quota rispettabile al primo accumulo del capitale cittadino. La comunità confessionale fu per loro un tramite efficace di integrazione nel nuovo ambiente. Questi gli inizi della vicenda storica serbo-triestina[3].

Due nuclei familiari sono all’origine dell’insediamento illirico a Trieste (le autorità austriache chiamavano Illirici i propri sudditi slavi ortodossi della Frontiera Militare, e per estensione anche gli altri, raccolti in piccole colonie mercantili a Vienna, Buda e in centri minori). Da Castelnuovo (Herceg Novi) alle Bocche di Cattaro proveniva il suddito veneto conte Giovanni Vojnovich, che nel 1750 si stabilì a Trieste con parenti, denaro e una nave[4]. Il titolo nobiliare acquisito a Venezia, la villa a Sant’Andrea, e una certa disposizione al lato violento del commercio marittimo, fecero di lui una figura tanto vistosa quanto singolare nella comunità mercantile triestina. Di Trebinje era invece originario Jovo Curtovich (Kurtović)[5], mercante di umili origini, a Trieste dal 1748. Per qualche tempo Jovo Curtovich fu il solo erzegovese operante nel Porto Franco. I suoi fratelli, sebbene affiliati alla locale comunità religiosa, lo visitavano a intermittenza e ripartivano per le sedi di un’azienda familiare che si andava ramificando nel Levante e in Europa centrale. Un compaesano, Florio (Cvetko) Jovanovich, lo raggiunse nel 1753; da Sarajevo, poco dopo, arrivò un Risnich (Riznić); e questa, con i Vojnovich, per una dozzina d’anni fu tutta la presenza illirica nell’emporio triestino.

Alla metà degli anni ‘60 prese avvio un flusso immigratorio non massiccio ma costante, formato per lo più, fino alla metà del decennio successivo, da gente che si dichiarava "da Trebinje in Turchia". Trebinje era all’epoca una cittadella fortificata. Ospitava una guarnigione ottomana e qualche famiglia artigiana, non una concentrazione di mercanti. Nei dintorni, nella regione montuosa alle spalle di Ragusa, la popolazione ortodossa doveva aver acquisito qualche dimestichezza con le merci nell’attività carovaniera, lungo la pista che collegava la fiorente piazza di Sarajevo al porto della repubblica adriatica tributaria del sultano. A Sarajevo, gli ortodossi erano in ascesa demografica ed economica. Dal tradizionale artigianato delle pelli e pellicce erano emersi mercanti capaci di uscire sui traffici d’esportazione dalla "Bossna turca"[6]. Un Risnich sembra arrivasse a Trieste per la via del commercio di terra, ma da Sarajevo gli ortodossi convogliavano le loro merci per lo più su Ragusa. Di qui un altro ramo della famiglia Risnich importò per alcune stagioni tabacco e altri generi a Trieste, e poi vi si trasferì, alla metà degli anni ‘60. Una parte del commercio bosniaco, malgrado i divieti delle autorità ottomane, deviava sui porti delle Bocche di Cattaro. La popolazione del posto era confessionalmente mista, latina e greca. I musulmani se ne erano andati durante la lunga guerra della fine del ‘600, che aveva consentito a Venezia di espandere il suo dominio da Cattaro all’intero territorio delle Bocche. Al loro posto erano immigrate famiglie ortodosse dall’entroterra[7]. Dalla metà degli anni ‘70 i bocchesi risposero in buon numero alla crescente domanda triestina di competenze marittimo-commerciali. La componente ortodossa del flusso immigratorio sul Porto Franco andò a rinforzare la locale comunità illirica. Se ne trova traccia, con l’indicazione di provenienza "da Castelnuovo in Dalmazia veneta", nell’autocensimento che gli Illirici triestini presero a tenere dal 1780, al culmine della lite con i correligionari greci.

Quest’ultima è una vicenda nota. Oggetto del contrasto greco-slavo, all’interno della chiesa comune, era la lingua dei servizi religiosi e il controllo degli organi direttivi. La vertenza si protraeva ormai da due decenni. Nel corso di essa, a più riprese il gruppo illirico si era curato di rappresentare al governo locale o, attraverso la gerarchia ecclesiastica, alla stessa imperatrice, la propria consistenza socio-economica. Si trattava di tabelle prospettiche intese ad impressionare le autorità, ma che queste avevano modo di controllare. Un documento del 1762 elencava due nobili – il conte Giovanni Vojnovich e suo nipote Demetrio (che in quegli anni si era guadagnato rinomanza come corsaro patentato, probabilmente l’unico nella storia navale austriaca[8]) – e nove mercanti, alcuni con famiglia e altri senza. In tutto, appena una trentina di persone: ma per un paio di nominativi "si aspettava che da un momento all’altro li raggiungessero le famiglie", e altri mercanti illirici venivano spesso a Trieste e forse vi si sarebbero fermati[9]. Quattro anni dopo, con qualche sforzo statistico il prospetto dei residenti raggiungeva le cento persone[10]; comprendeva dodici famiglie di mercanti, fra i quali tre proprietari di case, tre proprietari di vascelli, e due titolari di patrimonio complessivo (case e vascelli inclusi) di una certa entità – il conte Vojnovich, con 30.000 fiorini, e Jovo Curtovich con 40.000 fiorini; quindi tre famiglie di cui era imminente il trasferimento da Ragusa a Trieste, ma che in città erano già "possessionate"; e infine alcuni bottegai, osti, calzolai, che facevano numero ma erano relegati in coda alla lista come "altri attualmente abitanti". Da un memoriale alla sovrana dell’anno seguente[11] emerge un forte squilibrio, 2.5:1 (peraltro ovvio in una colonia in formazione), fra maschi e femmine. Intanto il patrimonio rispettivo del Vojnovich e del Curtovich è salito a 40.000 e 53.000 fiorini. Queste prime liste non includono i nomi di due nobili, un altro Vojnovich e un Petrovich, entrambi colonnelli dello zar, che pur sappiamo residenti a Trieste in quegli anni. A quanto pare le loro figure non contribuivano all’immagine di una operosa comunità, protesa al commercio per l’utile proprio e dello stato.

Nella fase risolutiva della controversia con i Greci, nel 1780, gli Illirici triestini esibirono alle autorità un autocensimento[12], che chiameremo "Tabella", alquanto più analitico rispetto ai precedenti. I dati erano verosimilmente tratti da una sorta di libro-matricola degli arrivi, inaugurato quell’anno (e proseguito fino al 1831) sotto la squillante intestazione "Registro di stabilimento delle famiglie slavo-illiriche… in questa città, dall’eppoca 1748, dalle diverse circuvicine provincie, che fecero brillare il comercio, con singolare prodiggio, ed utile al Sovrano Erario, nelle loro considerabili imprese"[13]. La struttura della comunità risulta ovviamente la stessa nei due prospetti, ma con qualche significativa differenza nella organizzazione delle informazioni. Si trattava di 160-170 persone (162 nella "Tabella"), guidate da 68 capifamiglia; di questi, metà erano sposati (28) o vedovi (un uomo, cinque donne); gli altri erano "nubili", come si diceva allora, ossia maschi singoli. La lista era aperta dai due sacerdoti illirici e dai quattro nobili, e si chiudeva con i nomi di quattro "faquini". In mezzo, negozianti, "viventi del proprio" (o "banchieri": è immaginabile che ciò significasse prestatori di denaro su interesse), "artifici" (pantofolai, sarti, ma anche due sensali), trafficanti (pellicciai), "capitani della Bandiera Imperiale", bottegai, un sagrestano.

La categoria più numerosa era quella dei "negozianti". Insieme con i "nobili", essi occupavano la prima metà della lista e formavano un gruppo riconoscibile da più indici di prosperità. Possedevano casa, moglie, prole, domestici. Scendendo nella lista e nella gerarchia sociale, questi vari attributi del successo economico scomparivano. La figura del capitano marittimo non doveva essere particolarmente prestigiosa. Nella colonna dei "capitani della Bandiera Imperiale" la "Tabella" dava solo i nominativi di Nicolò e Giovanni Nicolich, da Ragusa ma di famiglia originaria di Sarajevo, e distribuiva sotto voci diverse altri cinque nominativi qualificati come "capitani marittimi" nel "Registro". E’ da notare che Nicolò Nicolich, incidentalmente "dottore della medicina" oltre che capitano, non era neppure suddito austriaco nel 1780. Il teresiano Editto politico di navigazione mercantile del 1774 aveva lasciato scoperta la disciplina delle patenti di navigazione, che venne regolata una dozzina d’anni più tardi. Per il rilascio della patente la nuova normativa, nel 1786, impose tra le altre cose che il capitano fosse suddito imperiale[14]. E’ significativo che proprio in quell’anno Nicolò Nicolich chiedesse e ottenesse la naturalizzazione[15], senza la quale non avrebbe potuto continuare il suo lavoro (almeno non da Trieste e sotto bandiera austriaca). Come figura sociale, un capitano marittimo era in larga misura un lavoratore manuale. Se con l’esercizio di attività mercantili cumulate a quelle di carico/trasporto/scarico riusciva a mettere da parte qualche sostanza, egli tendeva ad investirla nell’acquisto di quote di proprietà (carati) della nave. La sua aspirazione era trasformarsi in armatore, e ancor meglio in negoziante. Certo, essere ad un tempo capitano, armatore e mercante era stata condizione normale per la generazione dei pionieri: gente come Pietro Andrich[16], che frequentava il porto di Trieste da tempo immemorabile, e che alla metà degli anni ‘60 comandava una checchia di sua proprietà, del valore di 4.000 fiorini[17]. O come il capitano Lazaro Ljubibratich, da Ragusa, che avrebbe trasmesso ai figli Antonio e Giovanni il mestiere ma non il bastimento, una polacca ceduta a Vojnovich e Curtovich[18].

La personalità di spicco nel gruppo dei primi immigrati illirici, comunque, compì la transizione da navigante a mercante su grande scala. Jovo Curtovich, secondo la leggenda, avrebbe visitato il porto di Trieste fin dal 1737; naturalizzato austriaco nel 1763[19], possedeva un bastimento nel 1766 ma già ne muoveva altri noleggiati (e poi acquistati), carichi di merci, fra Trieste e le filiali della ditta gestite dai fratelli a Smirne e Cismè in Turchia, e ad Amsterdam; un quarto fratello operava sul continente, fra Vienna e Praga. Nel 1780, al momento dell’esibizione del contributo dato al commercio triestino, gli Illirici poterono vantare le otto patenti di navigazione intestate a Jovo Curtovich su altrettanti "bastimenti di sua ragione", con i quali egli aveva importato ed esportato merci, nell’ultimo anno e mezzo, per il ragguardevole valore di 1.139.747 f. in conto proprio e di 197.386 f. su commissione[20]. La sua flottiglia, come mostra una tabella tratta dai registri del Magistrato di Sanità, non disdegnava i porti del Levante interdetti per epidemie, dai quali essa importava cotone e frutta secca per valori piuttosto ingenti[21]. Altra famiglia "storica" della prima immigrazione illirica è quella dei Risnich. Dei tre di loro che esercitavano la mercatura a Trieste negli anni ‘60, maggior successo ebbe Giovanni (Jovica). La sua ditta operava sia per mare che per terra (con l’Ungheria), ed era già affermata al tempo della separazione greco-illirica. Intanto apprendeva i segreti del mestiere il fratello minore Stefano, uno dei protagonisti della vita economica triestina nei decenni seguenti.

Un mercato e una chiesa

Perché erano affluiti a Trieste, tutti costoro e la ventina di altri "negozianti" dell’autocensimento illirico del 1780? Per gli erzegovesi, per la gente da Sarajevo e i sudditi ottomani in genere, è ragionevole ipotizzare che li attraesse la prospettiva di operare nelle condizioni di favore loro accordate dal regime doganale austro-turco. Si trattava della tariffa ridotta che le due parti erano tenute ad applicare sulle merci introdotte nel proprio territorio da sudditi dell’altro impero, in osservanza di una clausola del trattato di Passarowitz (Požarevac) (1718) confermata da trattati e convenzioni successivi. La clausola era stata concepita al tempo delle visioni mercantiliste di Carlo VI, che imponendo alla Porta il libero scambio presumeva di spianare ai manufatti austriaci la conquista dei mercati ottomani. E’ noto che le cose andarono diversamente, e che furono piuttosto i mercanti ottomani ad avvalersi del regime doganale agevolato per esportare in Austria cotone e altri generi[22]. Nelle particolari condizioni di Trieste, il vantaggio scattava per chi, avendo introdotto le merci nel Porto Franco, fosse poi in grado di accompagnarle a Vienna, Praga e altre piazze dell’interno – il che spiega il successo di un Curtovich nella fase iniziale, ottomana, della sua carriera. La posizione di favore dei mercanti ottomani fu comunque erosa negli anni ‘50 e ‘60 da disposizioni austriache culminate nella parificazione doganale del 1771[23]. Cessati i vantaggi comparati, restavano quelli generali offerti da un emporio in espansione, e quelli speciali offerti dal Porto Franco ai negozianti all’ingrosso (il "Privilegio di Foro").

Un mercante ottomano, a quel punto, non avrebbe perso nulla chiedendo la naturalizzazione austriaca. Del resto, avevano già mostrato inclinazione a farlo i mercanti illirici di provenienza veneta e ragusea, che non avevano titolo ad agevolazioni doganali. A Giovanni Vojnovich, con il suo prestigio e capitale, per esempio, lo status di suddito austriaco era stato concesso ben presto dopo il suo arrivo a Trieste. Lazaro Ljubibratich aveva chiesto e ottenuto la naturalizzazione nel 1765, e aveva anche rischiato di perderla per non aver tempestivamente trasferito a Trieste famiglia e affari[24]. Alla vigilia della parificazione doganale, le autorità austriache erano interessate a capire come avrebbero reagito i mercanti ottomani residenti in Trieste. Incaricarono perciò Jovo Curtovich, governatore (oggi diremmo presidente) pro tempore della nazione greca, di sondare le propensioni dei colleghi mercanti e confratelli, e di riferirne in via riservata. Molti si dichiararono "sudditi austriaci". Non lo erano, in realtà. Ma con questo esprimevano il proposito di diventarlo: proposito che le autorità avrebbero soddisfatto dietro presentazione di una sorta di certificato di buona condotta rilasciato dal capo della nazione, e purché si accertasse che erano seriamente intenzionati a stabilirsi e "possessionarsi" in città, se già non l’avevano fatto[25].

L’orientamento a naturalizzarsi, tuttavia, non risultò travolgente. Si registravano esitazioni in numero non marginale, e anche da parte di personalità ragguardevoli. I sudditi ottomani Florio e Demetrio Jovanovich e Giovanni Risnich chiesero la naturalizzazione appena nel 1777, quando avevano alle spalle 24 anni il primo, e 12 anni gli altri due, di "costante domicilio ed esercizio del commercio" in Trieste[26]. Alla fine del decennio, comunque, era divenuto usuale per un immigrato normalizzarsi in città come suddito austriaco. Nel "Registro di stabilimento" illirico del 1780, su una settantina di nominativi una dozzina erano indicati come non-imperiali: dieci veneti, dalle Bocche di Cattaro, un raguseo e un ottomano; nella Tabella dello stesso anno, ad uso esterno, i non-imperiali erano appena otto, tutti veneti e di recente arrivo[27].

Ci si può chiedere se le opportunità economiche offerte dall’emporio sarebbero bastate ad attrarre quella settantina di famiglie in assenza di un punto di riferimento religioso comunitario. Nella percezione degli immigranti, tornaconto materiale e appagamento spirituale erano strettamente intrecciati nell’offerta teresiana del 1751. Questa, si noti, era stata sollecitata dall’archimandrita greco di Trieste e dal metropolita illirico di Karlowitz (il capo della chiesa serba in territorio asburgico), pressoché allo stesso tempo (1749-50) e con il medesimo argomento: i ricchi mercanti pronti a trasferirsi dalle terre veneziane e turche, se a Trieste avessero avuto chiesa e sacerdote[28].

A Trieste, per vero, la chiesa in comune con i Greci soddisfaceva solo in parte questo bisogno. Nel 1762 gli Illirici erano appena un paio di famiglie in città, eppure già facevano valere presso il governo austriaco il loro peso economico attuale e potenziale: abbiamo portato a Trieste i nostri affari, e numerosi altri mercanti sarebbero pronti a fare come noi; ma a Trieste non verranno, se non sapranno di potervi trovare un parroco illirico; e noi stessi potremmo andarcene tutti, per la stessa ragione[29]. E’ difficile immaginarsi un Curtovich che per motivi religiosi abbandona la piazza dove si è costruito prosperità e reputazione. Eppure, la scoperta che a Trieste non c’era un sacerdote illirico bastò a un gruppo di mercanti di Sarajevo, che pur si erano già mossi, per rinunciare al progetto di trasferirsi nel Porto Franco[30]. In una lettera del 1766, il metropolita illirico ricordò alla sovrana che i mercanti bosniaci che cominciavano ad affluire a Trieste erano stati convinti a farlo dal vescovo di Karlovac con la promessa di una chiesa e di un sacerdote[31]. E ancora nel 1771, alla vigilia della risoluzione governativa circa un possibile utilizzo della chiesa comune a liturgia alternata greco-illirica, gli Illirici triestini chiesero che in caso negativo fosse loro concesso spostare famiglie e affari a Vienna o in qualche altra parte dei domini imperiali, "nell’unico fondamentale intento di mettere d’accordo benessere spirituale e materiale"[32].

Se le autorità decisero favorevolmente agli Illirici, non occorre dedurne che fossero impressionate di quella specie di "umilissima minaccia". Che gli Illirici si spingessero a formularla, piuttosto, mostra quale importanza, per loro, rivestisse la questione. Del resto, che la prospettiva di raccogliersi in comunità orientasse gli insediamenti dei mercanti illirici almeno quanto la ricerca del profitto è confermato dalla coeva vicenda di Fiume[33], dove l’immigrazione commerciale di sudditi ottomani bosniaci di religione greca ebbe inizi analoghi a quelli triestini[34], ma si scontrò poi con l’ostilità della locale gerarchia cattolica. Anche qui, il successo economico fu esibito dai mercanti illiririci a sostegno di richieste in campo religioso-comunitario[35]. Fra le famiglie più in vista per capitali investiti[36], alcune avrebbero fatto di Fiume una tappa d’avvicinamento a Trieste: così i fratelli Teodorovich, passati a Trieste nell’86 e presto emersi a posizioni eminenti nell’economia cittadina.

Dal commercio alle assicurazioni

Dopo la separazione dai Greci, la comunità illirica triestina continuò ad espandersi mantenendosi poco al di sotto dell’1% della popolazione cittadina: 75 famiglie e 217 anime nel 1792, 85 famiglie e 309 anime nel 1802[37]. Gli immigrati provenivano per lo più da serbatoi tradizionali come Castelnuovo/Herceg Novi "in Albania veneta" – o "in Albania austriaca" secondo la formula entrata in uso un paio d’anni dopo la fine della Serenissima –, Trebinje, Sarajevo. Dal capoluogo commerciale bosniaco, alla fine degli anni ’80, arrivarono a Trieste Teodoro Mechsa (Mekša) e Giovanni Chircovich (Ćirković). Mercanti esperti, erano sui quarant’anni d’età nel 1796 quando si misero in società con un fondo di 100.000 fiorini. La cifra era di assoluto riguardo nella piazza triestina, dove la maggior parte dei negozianti all’ingrosso, a quel tempo, si registravano al Tribunale Commerciale con un capitale fra 10.000 e i 50.000 fiorini[38]. Nel 1799 la ditta "Theodoro Mechsa e Chircovich", ascritta alla Borsa, gestiva una complessa rete d’affari fra Smirne e Vienna, con ramificazioni in Italia e in Germania. A Smirne si appoggiava largamente su Demetrio Manzuk (i cui discendenti verranno pure attirati da Trieste), a Carlstadt e Fiume su altri Chircovich[39]. Nel 1805 la società si sciolse, Teodoro Mechsa ne assunse lo stralcio, e ai fratelli Chircovich (a Giovanni si era aggiunto il fratello minore Demetrio) toccò un saldo pari a 143.000 f. di cui il grosso era costituito da interessenze (quote di proprietà) in una dozzina di bastimenti, e il resto da contante, cambiali, azioni, merci in magazzino e perfino "effetti in Pietroburgo". Il capitale fu riversato quasi per intero nel fondo sociale della nuova ditta "Fratelli Chircovich"[40].

Originari di Trebinje erano i fratelli Teodorovich, passati a Trieste da Fiume alla metà degli anni ’80[41]. I Teodorovich si tennero a lungo in società con il mercante fiumano Teodoro Rajovich, presso il quale avevano appreso il mestiere. Nel 1798 si costituirono in ditta familiare, e da questa nel 1802 si staccò Drago, il più giovane dei tre. Quando gli altri due, Pietro e Giorgio, immatricolarono la loro ditta presso il Tribunale Commerciale, nel 1806, il fondo sociale ammontava a 120.000 f., di cui più di metà coperti da interessenze in undici bastimenti, e il resto da cambiali, contanti, e un seicento barili di uva di Smirne[42].

Fra i nuovi arrivati nella comunità illirica si distingue per la provenienza insolita la figura di Niccolò Botta. La famiglia Botta era originaria di Moschopolis, cittadina a sud-ovest dei grandi laghi fra Albania e Macedonia, un tempo fiorente centro commerciale. Nella prima metà del ‘700 i mercanti valacchi di Moschopolis si erano spinti per terra e per mare fino a Venezia, Vienna, Buda e alla fiera di Lipsia. La città e i suoi traffici erano stati duramente colpiti dal saccheggio di predoni albanesi nel 1769[43]. Qualche anno dopo i Botta lasciarono Moschopolis per stabilirsi a Spalato, e di lì nel 1790 si trasferirono a Trieste. Niccolò aveva allora una trentina d’anni. Di religione greca come in genere i Valacchi, e slavizzato durante il lungo soggiorno a Spalato, si affiliò alla nazione illirica. All’età di 40 anni, nel 1799, si immatricolò come negoziante all’ingrosso (trattava uva di Smirne, pelli, tabacco, cotone e altro) e chiese l’ascrizione alla Borsa. Il capitale della sua ditta, 22.905 fiorini, non era particolarmente elevato; anzi, era appena sopra il requisito minimo[44]. Il 22 luglio 1799 Niccolò Botta prestò giuramento come suddito austriaco[45], e lo stesso giorno il suo nome fu registrato, o insinuato come si diceva allora, nella non numerosa lista dei negozianti di Borsa[46], sorta di élite istituzionale della piazza triestina cui non tutti i mercanti di successo sentivano il bisogno di appartenere.

Nel gruppo di mercanti illirici, in quegli anni di traffici inceppati dalle guerre napoleoniche ma anche "drogati" dalle opportunità non convenzionali che esse offrivano[47], i capitali più ingenti gravitavano attorno alla famiglia Risnich. A quarant’anni d’età, nel 1791, Stefano Risnich si mise in società con Pietro Palicuchia (Palikuća), più anziano di lui, originario di Trebinje ma a Trieste da lungo tempo. Entrambi avevano fatto apprendistato in casa del defunto Jovica. Conferirono in fondo sociale 60.000 fiorini per la compravendita di grani dall’Ungheria e dal Levante[48]. Una dozzina d’anni dopo, nel 1803, morto Pietro Palicuchia, il figlio di questi, Giovanni, subentrò in società con Stefano Risnich e con il di lui nipote Giovanni Rajovich. Il capitale della nuova società raggiungeva la mostruosa somma di 531.234 fiorini. I 2/3 di essa facevano capo a Stefano Risnich, ma le quote dei due soci minori sfioravano comunque i 100.000 f. ciascuno[49]. La ditta durò poco. Sciolta nel 1806, fu proseguita come stralcio e poi (1808) per conto proprio[50] da Stefano Risnich con un capitale di 200.000 f., impegnato per lo più nel traffico marittimo con Odessa. Nel frattempo Giovanni Rajovich immatricolò un suo negozio per il commercio all’ingrosso di colla, cotone, zolfo, capperi, zafferano, fichi, gomme, manna, galla, olio e altro[51], e nel 1806, a trentaquattro anni d’età, primo nella generazione degli Illirici nati a Trieste, chiese e ottenne l’ascrizione alla Borsa[52].

Il successo negli affari di tutti costoro, così come di Jovo Curtovich fra i grandi mercanti, e di tanti altri di minor profilo, trovò gratificazione nel possesso immobiliare. Una parte dei loro capitali si riversò nella costruzione o acquisto di edifici in Città Nuova[53], con qualche puntata in Città Vecchia. Il rapporto con il capitale di rischio oscillava attorno a 1:3, con due importanti eccezioni. Nel 1809 il patrimonio immobiliare di Niccolò Botta era fra i maggiori in Trieste, per un valore stimato che ammontava a più del quadruplo di quelle delle merci della sua ditta; viceversa Stefano Risnich, che pur possedeva un palazzo in Borgo Teresiano, aveva in mare e in magazzino un capitale undici volte superiore al valore dell’immobile[54].

Il successo incoraggiò anche una variante metamorfica della mercatura tradizionale. I grossisti illirici operavano per lo più fra il Levante e il retroterra austro-tedesco di Trieste. Nella parte marittima il trasporto delle merci avveniva su bastimenti di loro proprietà – proprietà piena o più spesso per quote. Pirati greci e barbareschi, e corsari di varia bandiera, oltre alle insidie naturali, tenevano alti i rischi del trasporto. Assicurare le merci era costoso, ma in tempi di espansione dei traffici l’onere poteva convertirsi in investimento se l’assicurato era anche assicuratore: in tal caso, nel pagare un premio su merci e bastimento, il grossista faceva affari con se stesso (come figura economica, ma spesso anche in senso letterale), e fra quel che guadagnava e perdeva sui due lati del rapporto tendeva a stabilirsi un equilibrio a lui comunque favorevole per l’assenza di una competizione assicurativa esterna.

I mercanti illirici dovevano disporre di risorse, se furono in grado dapprima di contribuire all’ingente aumento di capitale che le compagnie di sicurtà triestine adottarono nell’atmosfera di ottimismo di metà anni ’90, e poi di reggerne il ridimensionamento una decina d’anni più tardi: così nella "Camera d’Assicurazioni"[55], nel "Banco d’Assicurazione e Cambj Marittimi" – poi "Nuovo Banco"[56] – e nella "Nuova Compagnia d’Assicurazioni"[57], dove gli azionisti illirici, attorno al 1805, erano presenti con il 15-20% del capitale sociale. Sullo stesso ordine di grandezze si assesta la "quota illirica" – 6 azioni su 50 – nella operazione di salvataggio della ditta "Fratelli Hoeslin e Comp.", fallita senza dolo nel 1803[58].

E’ ovvio che simili percentuali valgono come dato statistico, non come indice del peso di un "cartello". Come qualsiasi operatore economico triestino, un azionista illirico calibrava i propri investimenti assicurativi secondo calcolo economico, bilancio aziendale, sicurezza, reputazione, in termini strettamente individuali. Non è privo di significato, tuttavia, che nel partecipare a un’impresa in cui l’esposizione era di gran lunga superiore al liquido versato – giacché i conferimenti per il capitale sottoscritto avvenivano per lo più in cambiali e altri titoli – gli azionisti illirici tendessero a prestarsi l’un l’altro (anche se non esclusivamente tra loro) garanzia incrociata per la parte "aerea" del rispettivo impegno nel capitale sociale. A maggior ragione ciò vale per le tre nuove compagnie assicurative costituite, nei primi anni dell’800, su iniziativa e con rilevanti quote di capitale di negozianti illirici: gli "Amici Assicuratori"[59], lo "Scancello Sicurttà e Cambj"[60] e la "Società Illirica d’Assicurazioni"[61], con fondo sociale fra i 100.000 e i 600.000 fiorini.

Inseguendo la componente illirica del capitale triestino nella sua transizione dai commerci e trasporti alle assicurazioni, i nomi che si incontrano sono tutti quelli che ci si aspetterebbe di trovare: i mercanti affermatisi nei decenni precedenti, e inoltre i loro figli e nipoti che si affacciano con piccole quote azionarie al nuovo campo d’affari. Si trovano però anche nomi di cui invano si cercherebbe traccia nei registri dei negozianti all’ingrosso immatricolati presso il Tribunale Commerciale. Per i capitani marittimi Giovanni e Nicolò Nicolich la cosa si spiega con la disponibilità di risorse accumulate nell’esercizio di attività mercantili a lato di quella principale. Ma che dire di Giovanni e Filippo Cetcovich (Ćetković)? Era evidentemente possibile lavorare vent’anni nel commercio triestino, come il primo, ed avere successo senza darsi cura del crisma di "negoziante insinuato", o arrivare in città dalle Bocche di Cattaro, come il secondo[62], per spuntare entrambi, pochi anni dopo, fra gli azionisti di diverse compagnie di sicurtà, soci alla pari di un Carciotti, il magnate greco, nell’"Illirica". O si pensi a un Antonio Kuequich (Kvekić), calzolaio nel 1780 e azionista delle maggiori assicurazioni triestine verso la fine del secolo.

Oltre che del carattere aperto della nuova città mercantile, e della relativa elasticità delle sue regole, il dinamismo sociale della comunità illirica triestina ricevette impulso da una circostanza specifica connessa alle guerre napoleoniche e alle alterazioni geopolitiche da esse prodotte nell’Adriatico. Dopo la seconda occupazione francese di Trieste, per effetto della pace di Presburgo il litorale austro-ungherese si ridusse alla sua estensione pre-1797, e il commercio marittimo imperiale perse scali, navi, uomini. Le autorità austriache incoraggiarono la naturalizzazione dei marittimi ex-veneti[63], e l’opportunità fu colta da numerosi capitani delle Bocche di Cattaro, cattolici come ortodossi[64]. Per molti di loro Trieste fu soltanto la sede in cui prestarono giuramento e ricevettero il diploma di sudditi austriaci. Fra gli ortodossi, alcuni si affiliarono alla comunità e avviarono un nuovo ciclo di traffici sui mari e consolidamento nel ceto mercantile triestino. I loro nomi compaiono, in quegli anni, nel "Registro di stabilimento delle famiglie slavo-illiriche”: Alessandro Ragencovich (Rađenković), Cristoforo Popovich, Cristoforo Gopcevich e altri.

Identità multiple

Il riferimento ai registri della nazione non vale soltanto a riconoscere gli ortodossi fra i marittimi bocchesi. Distinguerli dai cattolici può non risultare di grande interesse, rispetto a competenze professionali che sono le stesse. Ma l’affiliazione confessionale era molto più un fatto comunitario che individuale, nel contesto triestino-asburgico. Essa definiva un’identità ed era il fulcro di altre, tutte racchiuse nella formula invero pedante, ma non ridondante, di "slavo-illirici di rito greco orientale non unito", con cui le autorità austriache definivano la posizione amministrativa degli slavi-ortodossi immigrati dalle province ottomane o residenti nei territori strappati alla Turchia.

Da quando un Patriarca serbo si era rifugiato a nord della Sava, alla fine del ‘600, esisteva in territorio asburgico un’autorità ecclesiastica ortodossa riconosciuta, l’arcivescovo metropolita illirico di Sremski Karlovci (Karlowitz), a capo di una serie di diocesi lungo la fascia della Frontiera Militare. Il Privilegio teresiano del 1751 aveva concesso libertà religiosa alla comunità greca di Trieste, di cui i Greci in senso etnico costituivano un’ampia maggioranza. Era però impensabile che un gruppo da cui ci attendeva propulsione ai commerci austriaci fosse affidato alla giurisdizione ecclesiastica di un alto dignitario ottomano quale il Patriarca greco di Costantinopoli[65]. Per decisione teresiana essi furono dunque sottoposti alla giurisdizione del metropolita illirico, residente in territorio imperiale, secondo un principio di controllo ribadito dal governo austriaco e poi incorporato nello stesso statuto della nazione illirica, nel 1793. Assai più che il peso economico rispettivo delle due componenti della comunità ortodossa triestina, è il riferimento a una chiesa etnica integrata nell’amministrazione asburgica a spiegare la preferenza del governo austriaco nel corso di tutta la prolungata lite greco-illirica, come pure il paradossale esito di questa nel 1781: una secessione greca dalla chiesa greca!

Non si dovrebbero tuttavia esagerare i contenuti etno-nazionali della separazione, come se identità nuove e tra loro incompatibili stessero emergendo a spezzare l’universalismo della comunità religiosa. Gli slavo-ortodossi della prima generazione di immigrati a Trieste, così come gli altri che continuavano ad arrivare dalle Bocche di Cattaro, da Trebinje o Sarajevo, erano "gente illirica di religione greca". Questo punto di vista amministrativo trovava pieno riscontro nelle percezioni degli interessati. Nei protocolli di naturalizzazione, decenni dopo il 1781, gli immigrati slavo-ortodossi si dichiaravano "greco-illirici", "greci", "illirici", "greci orientali". Del resto, prima della separazione, e malgrado la lite in corso, l’illirico Jovo Curtovich era stato ripetutamente eletto governatore (presidente) della confraternità greca. E dopo la separazione, qualche perdurante linea di solidarietà affiorava nei lasciti testamentari illirici alla parrocchia greca o ai suoi poveri, e forse anche nei pochi casi di esogamia, che per gli Illirici si rivolgevano per lo più verso il gruppo greco; nel mondo degli affari, poi, abbastanza ovviamente gli Illirici trattavano con tutti, ma erano greci i loro partners più frequenti.

Per quanto permeabile, in termini di affinità culturale, verso l’altro gruppo ortodosso triestino, la comunità confessionale illirica aveva una sua ben definita struttura istituzionale (gli Statuti e regolamenti del 1793 sarebbero rimasti in vigore per un secolo e mezzo) e mediava quattro diversi livelli di identità collettiva. Nella sua dimensione locale, l’identità illirica era focalizzata sulla chiesa e la parrocchia. La nazione era l’insieme dei fedeli immigrati, battezzati o anche solo in temporanea dimora a Trieste: un insieme di consistenza demografica variabile, ma in ogni momento alquanto più ampio del bratstvo, della confraternità, la parte più stabile della nazione, quella radicata in città. I confratelli pagavano una quota sociale ed eleggevano un Capitolo di diciotto membri; questi pagavano quota doppia e nominavano con mandato annuo un’amministrazione composta di un presidente, due vicepresidenti, due sindaci e un segretario, ai quali toccava l’onore e la responsabilità di gestire erogazioni caritative, stipendi ai maestri della scuola illirica e, soprattutto, ogni spesa inerente alla chiesa – con potere, si noti, di assunzione e licenziamento del parroco. Di fatto il Capitolo corrispondeva largamente all’élite sociale della nazione illirica. Vi venivano di solito eletti mercanti agiati, la cui esperienza prometteva oculatezza nella gestione economica, e le cui fortune garantivano copertura a spese straordinarie per la manutenzione o l’abbellimento della chiesa: gli stessi, come Pietro Palicuchia, Giovanni Curtovich, Stefano Risnich e tanti altri, che morendo avrebbero lasciato somme considerevoli ai poveri della nazione illirica, alla chiesa di S. Spiridione, alla scuola della comunità. Oltre che dalla posizione sociale, l’élite illirica era aggregata da "partecipazioni incrociate" (come nei capitali societari!) nei passaggi-chiave dell’esistenza umana. Attraverso un reticolo di matrimoni le quindici-venti più importanti famiglie illiriche erano tra loro imparentate[66]. Rinsaldava i legami la figura del compare, del "santolo". E quando veniva l’ora delle ultime volontà, a controfirmare l’atto testamentario venivano chiamati soci in affari e notabili della comunità.

Per molti, nella nazione illirica, l’affiliazione confessionale rinviava ad una più ampia identità culturale, che non rispettava i confini statali né quelli delle giurisdizioni ecclesiastiche. Le disposizioni testamentarie, di nuovo, sono eloquenti al riguardo. Avveniva che, dopo aver toccato con atti di ordinaria pietà le istituzioni caritative cittadine, i legati si protendessero a beneficiare chiese e conventi del lontano paese d’origine. Ma ancora più ambizioso, e toccante, era lo schema testamentario di Pietro Palicuchia[67], che distribuiva lasciti a istituzioni religiose e scolastiche nazionali in territorio asburgico e ottomano, lungo un arco che da Fiume tornava all’Adriatico passando per Carlstadt, Zagabria, Karlowitz, Sarajevo, Mostar, Trebinje e infine Ragusa!

Tanta cura per l’istruzione è significativa in un testamento firmato con una croce, così come Pietro Palicuchia aveva firmato in vita i suoi documenti commerciali. La stessa scuola illirica triestina poté costituirsi, nel 1792, grazie all’ingente lascito di un mercante viennese nativo di Sarajevo[68]. Nell’anno scolastico 1807-1808 la frequentavano una quarantina d’alunni fra i 4 e i 12 anni[69], i rampolli del gruppo di famiglie residenti e radicate in città. Com’è ovvio, una comunità di 200-300 anime non poteva produrre da sé gli insegnanti di cui aveva bisogno. Questi andavano cercati fuori, ma non esisteva un centro istituzionale cui attingere. Lo stesso metropolita di Karlowitz era in difficoltà davanti alle richieste dei triestini; e allora si chiedeva in giro, ai connazionali di altre colonie mercantili, a Buda o Vienna. Salvo supplenze anche prolungate tenute dal diacono, la figura del maestro illirico che affiancava il maestro di italiano e tedesco tendeva a confondersi con quella dell’intellettuale itinerante, di formazione ecclesiastica ma diffusore di variegate conoscenze e interpretazioni del mondo contemporaneo. Negli anni a cavallo fra i due secoli numerosi filosofi e letterati illuministi e preromantici di lingua illirica transitarono per Trieste o vi si fermarono più o meno a lungo, trovando ospitalità presso i mercanti della loro nazione[70].

Spicca fra tutti Dositej Obradović, personaggio straordinario: viaggiatore instancabile ai quattro angoli d’Europa, studente a Halle e Lipsia, poeta, saggista ed editore, autore di un romanzo pedagogico, poliglotta, aveva 62 anni nel 1802 quando si stabilì a Trieste con il progetto di fondarvi una tipografia. Sussidiato dai mercanti locali e in particolare dai Teodorovich, integrava le sue entrate facendo traduzioni commerciali. Nel dicembre del 1805 i fratelli Giovanni e Demetrio Chircovich stipularono un contratto di società in cirillico; il testo fu quindi tradotto dalla "lingua slavona" nella lingua d’affari del Porto Franco (per la registrazione presso il Tribunale Commerciale). La versione italiana del contratto reca in calce la scritta: "fedelmente da parola in parola tradussi io Dositheo Obrad. maestro di lingue"[71].

Sei mesi più tardi Dositej lasciò Trieste e, in età ormai avanzata, trovò la forza di mettersi in viaggio per il pašaluk[72] di Belgrado, dove gli insorti serbi avevano liberato dagli Ottomani il territorio e stavano organizzando un embrione di stato. La scelta di Dositej ci introduce al terzo livello (dopo quello confessionale e quello culturale) di identità mediata dalla nazione illirica triestina: un legame etnico invero nuovo, valorizzato da sviluppi militari e politici senza precedenti.

Non c’era a Trieste un solo Serbo originario del pašaluk di Belgrado, in effetti, quando ai ricchi mercanti triestini si rivolsero per aiuto i capi dell’insurrezione[73]. La nazione illirica rispose, nel 1806, forse non generosamente quanto noi ci aspetteremmo. Furono raccolti 12.750 fiorini, in gran parte versati dai tre fratelli Teodorovich, dai due fratelli Chircovich e da Jovo Curtovich[74]. La cifra corrispondeva grosso modo al valore di un brigantino di stazza medio-piccola in mare da parecchi anni[75]. Stando alle memorie di uno dei protagonisti – memorie a volte imprecise perché scritte a distanza di molti anni – gli insorti avrebbero invece ricevuto "dai Serbi di Trieste" 2.000 fiorini, che comunque rappresentarono "a quel tempo un bell’aiuto"[76].

E’ interessante notare che non era politicamente rischioso, per i mercanti triestini, collegarsi con un contributo in denaro al moto insurrezionale serbo. La gente del pašaluk di Belgrado aveva con l’Austria molteplici connessioni, aveva collaborato con l’esercito asburgico durante l’ultima guerra, riforniva di suini in grande quantità i mercati oltre Sava e Danubio, e al di là dei fiumi si rifugiava in massa dalle turbolenze turche. Lo stesso Dositej raggiunse la Serbia con passaporto austriaco, e fra gli ufficiali dell’esercito di Karadjordje, nel 1808, c’era un Nikola Škuljević da Mostar[77], già negoziante triestino naturalizzato suddito austriaco[78]. Era l’Austria più che la Russia, a quel tempo, il naturale referente politico dei Serbi – sebbene la prima si guardasse bene dall’immischiarsi nel loro conflitto con gli Ottomani, e la seconda incoraggiasse invece, per poi deluderle, le ambizioni indipendentiste degli insorti[79].

Ovviamente, in quell’arco di anni le vicende napoleoniche toccarono la comunità illirica triestina assai più che le gesta e i disastri dei lontani connazionali serbi. Una linea di conoscenza e di solidarietà si era tuttavia stabilita, aprendo a nuovi orizzonti l’identità illirica locale. Per il momento un profilo nazionale serbo in formazione non era affatto in contrasto con i vincoli di lealtà asburgica. Verosimilmente non c’era ipocrisia, né riserva mentale, ma piena convinzione, nel giuramento con cui i notabili serbi triestini confermarono fedeltà all’imperatore e al governo austriaco, nel settembre 1814, dopo la parentesi francese[80].

I Serbi, la Borsa e la città

C’era infine un quarto livello di identità mediata dall’appartenenza alla nazione illirica, che per ovvie ragioni poteva interessare quasi esclusivamente la sua élite. Le autorità austriache avevano incoraggiato le nazioni triestine quali fattori d’ordine nella crescita della città nuova. Negli anni ’90 del XVIII sec. mostrarono di apprezzarle anche come soggetto contributivo, sollecitandole a "dazioni volontarie" per coprire imposte straordinarie di guerra[81]. Più avanti, il governo provinciale pensò addirittura che alle nazioni – o meglio, a una sorta di collegio delle loro rispettive élites – potesse essere affidata una qualche funzione regolativa di un mondo degli affari in espansione disordinata.

Le immatricolazioni di ditte presso il Tribunale Commerciale erano ben lungi dal coprire l’universo e le risorse dei negozianti triestini[82]. Fra gli immatricolati e aventi titolo a chiedere l’ascrizione alla Borsa, poi, appena la metà davvero la chiedevano[83]. E degli ascritti (60-70 ditte), meno della metà si presentavano alle Radunanze Generali[84] Dietro insistenza del governo, nel 1804 la Borsa adottò un nuovo Regolamento che favoriva l’ampliamento delle ascrizioni e istituiva una Consulta di 40 membri "illuminati e pratici", dalle cui fila si sarebbero eletti i 6 componenti dell’organo direttivo permanente della Borsa, la Deputazione. In prima applicazione del nuovo Regolamento fu il governo a nominare i 40, e lo fece secondo il criterio delle nazioni: accanto a 20 Cattolici romani, 20 a-cattolici espressamente ripartiti in gruppi confessionali: 6 Greco-orientali, 3 Greci illirici, 3 per la Confessione augustana, 2 per l’Elvetica, e 4 Ebrei[85]. Giovanni Curtovich, Stefano Risnich e Teodoro Mechsa erano a quel tempo, per capitali e prestigio, le personalità eminenti della loro nazione; e questo contava più del fatto che il solo Mechsa, dei tre, fosse ascritto alla Borsa.

La rappresentatività riconosciuta alle nazioni nella cosa pubblica della città-emporio trovò conferma pochi anni dopo nella struttura dell’amministrazione provvisoria cui le autorità austriache cedettero i poteri prima di ritirarsi davanti alle truppe di Napoleone (maggio 1809)[86]. Per gli Illirici, ne faceva parte Mechsa. E perfino i Francesi, nel 1812, nel formare un Consiglio municipale a fianco del Maire di Trieste, ebbero cura di bilanciarne la composizione di 20 membri con "dodici cattolici, tre israeliti, tre greci-orientali, un greco-illirico, un calvino"[87]. Il greco-illirico, questa volta, era Stefano Risnich.

Nel corso della seconda e terza occupazione francese i grossi negozianti conobbero rischi e responsabilità connessi al far parte dell’élite economica cittadina. Jovo Curtovich era nel gruppo di dieci negozianti in vista che nell’inverno 1805-6 finirono in fortezza a garanzia del pagamento della contribuzione bellica da parte della città. Nel 1809 Jovo Curtovich, o meglio la sua ditta, era di nuovo nella lista di quaranta ostaggi per la nuova, assai più pesante, contribuzione forzosa. Con lui, Stefano Risnich e più avanti Giorgio Teodorovich[88]. Ancora Risnich e Mechsa erano presenti nelle commissioni di ratazione che nel 1806 e nel 1809 si assunsero il compito inedito di ripartire il carico dei prelievi forzosi secondo una capacità contributiva dedotta da patrimonio immobiliare e capitale in affari[89]. E sempre Risnich, alla resa dei conti (delle ratazioni), figurò nella dozzina di maggiori contributori, mentre i suoi connazionali si collocavano piuttosto nella fascia media e bassa[90].

Intanto le compagnie assicurative ad una ad una chiudevano; e così le ditte commerciali. Fra gli Illirici, nell’agosto del 1811 risultavano ancora attivi[91] soltanto Teodoro Mechsa, i fratelli Chircovich e Giovanni Rajovich; quest’ultimo cessò poco dopo. Oltre che della generale paralisi dell’economia cittadina, l’élite illirica stava soffrendo dell’uscita di scena della generazione dei grandi. Jovo Curtovich morì nel 1809, vecchissimo. Il suo testamento distribuiva legati alla scuola della nazione, alla chiesa, ai poveri; e quindi ai fratelli e ai loro figli, mercanti in Cismè, Smirne, Amsterdam, e alla sorella a Trebinje; e nominava erede universale il nipote Massimo[92]. Poiché non si fece luogo a ventilazione ereditaria, non sappiamo a quanto ammontasse il patrimonio lasciato. In ogni caso Massimo non seguì le rotte avventurose dello zio, ne liquidò la ditta e spese il resto dei suoi giorni da possidente (con qualche puntata nel ramo assicurativo, dopo il 1914) e notabile della comunità.

Al principio della terza occupazione napoleonica, Stefano Risnich inviò il figlio sedicenne Giovanni ad occuparsi della filiale in Odessa. Nei traffici del Mar Nero il giovane Risnich se la cavò bene, mentre a Trieste il commercio era penalizzato dal blocco marittimo britannico. Stefano chiuse la ditta nel 1810; intravedendo prospettive di ripresa la riaprì nel 1812[93], appena in tempo per morire (1813). Il suo testamento[94] era molto accurato nella distribuzione dell’asse alla vedova e ai quattro figli, due maschi e due femmine. In particolare lo era nella ripartizione delle quote di proprietà (per lo più fra gli 8 e i 18 carati) sui diciotto bastimenti (navi, polacche, brigantini) della flottiglia familiare. Il patrimonio[95] era costituito per un po’ più di un decimo da immobili (due case in Trieste e una di maggior pregio in Odessa) e loro pertinenze, e per il resto da capitale commerciale che gli eredi convennero di lasciare per intero nella ditta "Stefano Risnich", trasformata in società e affidata alla direzione del fratello anziano, Giovanni[96]. Il talento di questi fu riconosciuto dal corpo mercantile che nel 1818 lo elesse, venticinquenne, deputato di Borsa. Nel 1821 Giovanni Risnich rilevò la ditta in nome proprio; pur continuando a dividersi fra Trieste e Odessa (di fatto, una seconda sede più che una filiale), fu tra i protagonisti della rinnovata metamorfosi del capitale triestino da commerciale in assicurativo.

Nel 1815 morì Giorgio Teodorovich. Insieme con il fratello Pietro aveva chiuso il negozio nel 1810 e l’aveva riaperto nel 1814: ma senza grande convinzione, investendovi molto meno dei 90.000 fiorini che lasciò poi ai tre figli minori[97].

Se ne andò infine Teodoro Mechsa, nel 1817. La ventilazione ereditaria[98] mise in luce un quadro non confortante per il figlio Giorgio e le sue due sorelle (peraltro ben maritate). I crediti vantati erano molto ingenti, ma altrettanto lo erano i debiti[99]. Agli eredi, nel migliore dei casi, restavano meno di 7.000 fiorini al netto della liquidazione degli immobili ipotecati. E’ possibile che una parte del patrimonio sfuggisse alla ventilazione ereditaria. Ma anche così, Giorgio fu molto abile a districarsi dallo stallo economico paterno per riemergere quindi come azionista e dirigente in campo assicurativo.

Declino demografico, frammentazione finanziaria

Nei primi anni della Restaurazione arrivò a Trieste ancora qualche famiglia serba da Sarajevo e dalle Bocche di Cattaro. Nel 1821 la nazione illirica triestina contava 66 famiglie più 23 singoli, pari a 301 persone, di cui 175 maschi e 126 femmine, tra le quali 18 vedove. La nazione aveva raggiunto il suo sviluppo massimo durante il periodo francese: 95 famiglie, 360 anime. Il numero delle morti eccedeva quello delle nascite, e le immigrazioni in calo non compensavano più il deficit[100]. La tendenza sarebbe continuata nei decenni successivi, con effetti drammatizzati dalla simultanea espansione demografica della città.

Qualche dato sulla struttura socio-professionale della nazione illirica si ricava dalla Tabella prospettica[101] per il 1821, contenuta nel "Registro di stabilimento delle famiglie" (quello inaugurato nel 1780). Aprivano la lista la contessa Vojnovich, vedova Carciotti, e altri due superstiti dalla famiglia Vojnovich. Il resto della comunità seguiva secondo un criterio misto di gerarchia sociale e anzianità di domicilio in Trieste. L’immagine d’insieme non era fulgida come quarant’anni prima. Bottegai, mezzani e rivenduglioli erano più numerosi dei "negozianti". E fra questi – giacché ora la categoria veniva applicata con maggiore precisione tecnica – soltanto tre si qualificavano come insinuati, ossia immatricolati presso il Tribunale Commerciale. Si trattava di Giovanni Risnich, Pietro Teodorovich e Michele Vucetich (Vučetić), quest’ultimo originario delle Bocche e da qualche anno a Trieste dopo lunga attivitŕ a Malta[102]. I due "banchieri" della Tabella erano il Giovanni Rajovich già negoziante di Borsa, e Gabriele Bajovich immigrato da Sarajevo. Vivevano di rendita, ritirati dagli affari, tre "possidenti"; così pure dovevano aver messo da parte qualche soldo gli ex-capitani marittimi, nutrita schiera a fronte degli appena due in attività. Ancora, una varietà di mestieri: un facchino, un cuoco, un sarto, un fornaio, un calzolaio, qualche domestico, due scritturali; e infine, alcuni intellettuali: due "studenti", due maestri della scuola illirica, due impiegati (al Governo provinciale e al Magistrato civico), e un “dottor di medicina”, il medico e giornalista Demetrio Frussich (Frušić), immigrato dall’Ungheria[103]. Da un quadro simile di comunità anziana e sedentarizzata, di veterani in ritiro, è difficile capire chi, a parte Giovanni Risnich e un altro paio di operatori, potesse muovere le "settanta navi tutte di grossa portata" che Girolamo Agapito[104] attribuisce ai Serbi triestini nel 1824.

La Tabella è elusiva anche nel senso che le sue tradizionali categorie di "negoziante", "possidente" e "capitano mercantile" occultano l’attività specializzata, le assicurazioni, in cui si stavano riversando i capitali salvati alla rovina del periodo francese. Con la ripresa dei commerci marittimi, fra il 1814 e il 1816 si erano formate a Trieste nove compagnie di sicurtà, dotate di capitale sociale dai 100.000 ai 300.000 fiorini. Gli Illirici erano presenti in quattro di esse (il "Banco d’Assicurazioni Marittime", la "Camera d’Assicurazioni", la "Vecchia Rinnovata Compagnia d’Assicurazioni", gli "Assicuratori Marittimi") con il 15-20% delle azioni, e in altre tre[105] con un 10% circa. Fra i maggiori azionisti, i soliti nomi di mercanti affermati: Giovanni Risnich, Pietro Teodorovich, Giovanni Rajovich e, prima di passare a miglior vita (1818), Drago Teodorovich. Attorno al 1820, scaduti i contratti sociali, una sola compagnia si sciolse mentre tutte le altre optarono per il proseguimento. Se ne costituirono anche di nuove, molte delle quali con partecipazione illirica all’azionariato e alla direzione[106]. Nella "Nuova Compagnia Illirica", malgrado il nome, gli azionisti erano per lo più Ebrei e Greci triestini e veneziani; fra gli Illirici, che contavano per un 10% del capitale, assunsero cariche direttive Cristoforo Gopcevich, armatore, e Cristoforo Czvietovich[107]. Quest’ultimo, originario di Castelnuovo, dal 1798 a Venezia come commesso e poi mercante in proprio, dal 1821 a Trieste, affiliato alla nazione illirica e sposato a una Teodorovich, dal 1822 titolare di un negozio all’ingrosso immatricolato, possedeva piccole quote azionarie in almeno altre quattro società.

Dal punto di vista del singolo capitalista, il proliferare delle compagnie di sicurtà consentiva investimenti diversificati; dal punto di vista delle compagnie, tuttavia, la frammentazione e gli incroci del capitale azionario vanificavano l’aspettativa di trovare nei propri stessi soci una stabile committenza assicurativa. In quegli anni, inoltre, la navigazione del Levante era esposta alla pirateria degli insorti ellenici e intralciata dalle manovre della flotta egiziano-ottomana; ne risentiva negativamente il monte premi globale che gli assicuratori triestini potevano sperare, a rischi crescenti, di contendersi. La "Nuova Illirica" si sciolse nel 1826, dichiaratamente per difetto di "ricorrenze", ossia di ordini assicurativi, da parte dei soci.

Alla fine degli anni ’20 il Trattato di Adrianopoli, chiudendo le ostilità russo-turche (1828-29), garantì un esito politico all’insurrezione greca, riaprì gli Stretti alle marine mercantili e rilanciò i traffici del Levante. I brigantini dei negozianti-armatori illirici ripresero a frequentare i porti del Mar Nero (Odessa, Ismail sulla foce del Danubio, Taganrog, Marianopoli), caricando grani destinati a Trieste, Livorno, Marsiglia, e in misura minore ai mercati dell’Egeo. La famiglia Risnich operava ormai da Odessa, con flottiglia propria e con bastimenti affittati. Da Trieste muoveva tre brigantini la famiglia Gopcevich, e altrettanti il bocchese Marco Kuechich (Kvekić), immigrato nel 1820. Piů numerose le flottiglie di Michele Vucetich e soprattutto di Cristoforo Czvietovich. Nonostante le ondate epidemiche di colera nel Mar d’Azov e la vivace concorrenza greca e sarda, il traffico sotto bandiera austriaca, di cui gli Illirici gestivano ancora una parte rilevante, fu molto intenso nel 1830[108]. Le previsioni dei consoli locali non erano ottimistiche, ma intanto la ripresa del 1829-30 bastò a rinfrescare i capitali e stimolare le assicurazioni.

Attorno a quegli anni molte compagnie si rinnovarono, mutando assetto azionario. Le difficoltà già registrate dalla "Nuova Illirica" determinarono invece lo scioglimento, dopo sedici anni di attività, della "Camera di Assicurazioni": come si espresse uno dei suoi direttori, le operazioni andavano scemando "per il soverchio numero dei stabilimenti di sicurtà qui erettisi", la maggior parte dei quali imponeva ormai ai soci l’obbligo di stipulazioni assicurative per un importo annuo di premi almeno pari a una data percentuale (nel "Greco Banco", per esempio, il 15%) su ogni azione posseduta[109]. Ciò malgrado, nuove compagnie continuavano a formarsi, e in alcune di esse assunsero posizioni di rilievo azionisti illirici. Nella "Nuova Stanza d’Assicurazione" (1829) fu tra i primi direttori Matteo Draghichievich (Dragičević)[110], già mercante e agente consolare austriaco a Ismail, ammogliato a una Teodorovich. Nell’"Adriatico Banco di Assicurazione", costituito nel 1829 con un fondo sociale record di 600.000 fiorini[111], al rinnovo contrattuale del 1836 emerse come azionista e direttore Marco Kuechich[112].

Nel complesso la partecipazione azionaria degli Illirici era molto frammentata: piccole quote, da due a cinque azioni, su diversi tavoli, sul modello di un Cristoforo Czvietovich che alla metà degli anni ’30 era direttore in una compagnia, il "Banco Illirico"[113], e azionista in una decina d’altre. Delle venti e più compagnie di sicurtà operanti in Trieste a quel tempo, una soltanto aveva carattere spiccatamente illirico, la "Società Slava di Assicurazioni marittime"[114] costituita nel 1830 con capitale di 200.000 fiorini. Della "Società Slava" erano azionisti un paio di anziani come Cristoforo Popovich e Cristoforo Czvietovich; quindi alcuni della generazione di mezzo come Marco Kuechich, Spiridione Popovich, Matteo Draghichievich, Giorgio Mechsa; quest’ultimo, come direttore della "Slava", fu eletto alla Commissione mista di assicuratori e commercianti per l’elaborazione degli statuti del Lloyd Austriaco, e poi alla prima Direzione dello stesso[115]; infine i figli di mercanti e armatori, cresciuti negli anni della Restaurazione: Spiridione Gopcevich, Pietro Vucassovich, Pietro Ragencovich, diversi Teodorovich, e figure nuove come Cristoforo Opuich di famiglia erzegovese (Opuhić), o Costantino Simeoni figlio di Basilio mercante di Sarajevo (Simeunović), immigrato a Trieste nel 1814. Accanto a Greci, Ebrei, Dalmati, Italiani, il gruppo degli Illirici deteneva quasi la metŕ delle azioni della "Slava": una confluenza invero insolita, per la quale si sarebbero potuti trovare precedenti solo risalendo all’inizio del secolo. L’idea di uno sforzo collettivo, forse coordinato, rivolto a salvare un "profilo illirico" nel campo della sicurtà, è suggerito anche dalla circostanza che gli azionisti illirici della "Slava" sedevano pressoché al completo nel Capitolo[116] della loro Confraternità, a fianco di qualche possidente e mercante che non si era lasciato tentare, o non aveva risorse per farlo, dall’impresa assicurativa.

La "Società Slava" fu prorogata nel 1836 e si sciolse nel 1841. E’ facile immaginare che le fosse fatale la debolezza di capitale. Fin dalla prima emissione, un quarto delle azioni erano state incamerate in quanto non sottoscritte. E del fondo sociale, a norma di contratto, gli azionisti erano tenuti pro quota a versare in liquido appena il 10%, conferendo il resto in cambiali coperte da garanzie spesso incrociate fra gli stessi azionisti. Erano anni di forte crescita dei traffici, delle marine e dei tonnellaggi; era in sviluppo la marina mercantile a vapore e cominciava a farsi sentire la concorrenza assicurativa esterna. Le masse di capitali in gioco stavano raggiungendo ben altre dimensioni. Si pensi alla "Camera Assicuratrice", costituita nel 1838 con fondo sociale di 2 milioni di fiorini[117]. E’ significativo che Giorgio Mechsa passasse dalla direzione della "Slava" a quella della "Camera Assicuratrice". Dalla nuova posizione, negli anni ’40, fu tra i protagonisti della cartellizzazione delle compagnie federate nel Lloyd. Accanto a lui nella direzione a cinque della "Camera" figura nel 1851 un altro Illirico, Michele Vucetich.

Assimilazione cittadina e revival nazionale

Ormai prossimo agli ottant’anni, decano della Confraternità e come Mechsa più volte presidente della comunità illirica, diversamente da Mechsa Michele Vucetich era di estrazione mercantile più che assicurativa[118]. Nel 1851 la sua era una delle appena cinque ditte all’ingrosso, sulle duecentocinquanta circa immatricolate presso la Camera di Commercio[119], a cui si era ridotta la presenza dei negozianti illirici sulla piazza triestina: Michele Vucetich, appunto (dal 1814!), Costantino Cattich, Marco Kuechich come socio occulto di G. Giominer, Giovanni Cetcovich come socio occulto di G. Hilti, Giorgio Drago Teodorovich in società con Roeder (tutti e cinque, si noti, erano membri pressoché permanenti, in quegli anni, del Capitolo della Confraternità illirica)[120]. Il baricentro dell’economia cittadina si era spostato dal commercio alle assicurazioni, e le assicurazioni si erano cartellizzate e gigantizzate. La duplice trasformazione aveva sì valorizzato personalità di spicco tra gli Illirici, ma sospingeva il gruppo verso l’invisibilità economica, oltre che demografica. La comunità contava 272 anime nel 1830, 247 anime nel 1835 e ancora 247 nel 1845[121]. Ma intanto la città (senza il "territorio") aveva raggiunto i 60.000 abitanti.

Nella élite della nazione, la Confraternità, si avvicendavano annualmente ai diciotto seggi capitolari una trentina di persone. Secondo la "Tabella dei Nazionali Illirici" del 1838 la Confraternità era per intero composta, tranne un paio di medici[122], da "negozianti". Alcuni di loro erano anche "possidenti", ma per il resto la categoria "negozianti" copriva qui genericamente condizioni di commerciante all’ingrosso e al minuto, di armatore e assicuratore. Qualcosa di più sulla posizione sociale della élite interna illirica si deduce dalle liste degli eleggibili al Consiglio municipale del 1848, dove figurano 6 Illirici nella prima classe (contribuenti maggiori in qualità di possidenti o commercianti), altri 8 sui 30 della classe armatori, e infine Giorgio Gopcevich nella classe dei dottori in medicina. Il grado di integrazione di tale élite nel ceto dirigente borghese triestino è misurabile anche dalla presenza in sedi di sociabilité cittadina quali il selettivo Casino Vecchio[123], di cui sono membri gli esponenti più in vista della nazione illirica da Giovanni Risnich a Giorgio Mechsa, passando per Cristoforo Czvietovich, Michele Vucetich, diversi Teodorovich e altri ancora; o i più aperti Casino Greco e Casino Tedesco o il Teatro Grande e associazioni culturali varie, cui accedono e contribuiscono famiglie illiriche di minor profilo "storico" ma di non minori risorse economiche[124].

Fra queste ultime, fra le famiglie emergenti attorno alla metà del secolo (gli Opuich, i Covacevich, gli Scuglievich) si registreranno successi commerciali anche notevoli: nuove fortune, illustrate dall’acquisto o edificazione di immobili di prestigio[125], e onorate da ingenti lasciti alla comunità, alla chiesa, alla scuola. Si tratta però ormai di exploits individuali, che sarebbe vano tipizzare riferendoli all’intraprendenza di ciò che gli Illirici triestini non erano più, ossia una colonia di pionieri; così come inconcludente sarebbe, inoltrandosi nella seconda metà del secolo, cercare il peso del "gruppo illirico" in una città di oltre 100.000 abitanti e in un’economia mossa dal capitale anonimo e dalla navigazione a vapore. Il tipo del mercante-armatore avventuroso, che gioca e rischia fra i mercati di due mondi – Europa e Turchia, Europa e Russia – sopravvive in un paio di figure suggestive, e non oltre.

Alla vigilia della guerra di Crimea, Spiridione Gopcevich era al culmine del successo materiale e dell’impegno solidaristico. Presidente della comunità illirica dal 1847 al 1851 e di nuovo nel 1854, egli fu l’anima di un’intensa attività caritativa ordinaria (verso i poveri locali, per le onoranze funebri dei marinai deceduti in Lazzaretto o all’Ospedale Civico, per la riparazione di chiese in Dalmazia, ecc.) e di erogazioni straordinarie del Capitolo in soccorso alla famiglie di Sarajevo colpite dall’incendio del 1852 e ai profughi dall’Erzegovina[126] durante l’insurrezione anti-turca del 1852-53. In quegli anni egli mise mano alla costruzione di un elegante palazzo sul Canal Grande. Scoppiata la guerra di Crimea, Spiridione Gopcevich contrasse presso il Banco di Vienna un enorme debito per l’acquisto di un’altrettanto enorme partita di grano russo, che a quanto pare egli confidava gli fosse concesso caricare sulle proprie navi in deroga speciale al bando posto da Pietroburgo sull’esportazione. Gli fosse riuscita l’operazione, i profitti sarebbero stati memorabili in una congiuntura di scarsità di offerta. Ma nell’estate del 1855, mentre gli alleati assediavano Sebastopoli, il grano era bloccato nei magazzini di Azov e Spiridione Gopcevich scriveva preghiere angosciate ai ministri russi perché il bando fosse tolto prima che l’autunno gli facesse marcire derrate per un milione di rubli[127]. Le perdite furono rovinose. Spiridione Gopcevich non se ne risollevò neppure nel morale, e si ritirò dalla stessa comunità così come dagli affari.

Sebbene non in modo fatale, la guerra di Crimea danneggiò anche Drago Popovich, di famiglia di capitani e armatori molto legata alla comunità illirica[128]. Dal 1837 Drago operava fra Trieste e il Mar d’Azov, dove i Popovich avevano aperto uno stabilimento commerciale (a Berdyansk) e dove lui stesso aveva messo su casa (a Kerč in Crimea). All’inizio delle ostilitŕ Drago era a Trieste con i suoi brigantini, e come il fratello Špiro, per devozione alla Russia, ne rifiutň il noleggio a supporto logistico degli anglo-francesi. Sembra che per una sorta di rappresaglia, nonostante la posizione neutrale nel conflitto, le autorità austriache costringessero le navi dei Popovich all’ancora nel porto di Trieste fino al termine delle ostilità. Intanto la casa e i magazzini a Kerč venivano devastati dagli alleati[129]. Per riprendersi economicamente Drago, in età già avanzata, si rimise in mare. Nel giro di pochi anni era fra i più autorevoli nella cerchia dei piccoli armatori triestini; partecipò ai lavori della Camera di Commercio per il riordino e salvataggio della marina mercantile in difficoltà, fu membro della Commissione per la ristrutturazione del porto. Eletto consigliere municipale, elaborò un progetto di istituto-convitto professionale nautico. In una città già percorsa da tensioni nazionali, all’identificazione triestina di Drago e della sua famiglia portò un paradossale tocco finale il giovane Eugenio, garibaldino e irredentista italiano.

La riconoscibilità degli Illirici, del resto, scemava di pari passo con la loro diversificazione sociale e integrazione cittadina. Il dott. Eugenio Gusina poteva ben essere membro della Confraternità e del Capitolo, verso la fine dell’800, ma è dubbio che i suoi pazienti vedessero in lui altro che lo "stimato medico triestino". Assottigliato a forse due centinaia di anime, il gruppo illirico contava per poco più di un millesimo della popolazione cittadina[130]. I suoi giovani – pochi – uscivano dalla scuola della comunità "sapendo l’italiano, il tedesco, forse anche il francese, ma nient’affatto il serbo", né fuori dalla scuola avrebbero avuto modo di praticarlo[131]. I dirigenti illirici reagirono valorizzando i connotati culturali-nazionali[132] del gruppo religioso: la lingua serba in grafia cirillica sostituì l’italiano nei verbali e documenti interni[133], grande rilievo comunitario assunse l’annuale celebrazione di San Sava, fondatore della chiesa medievale serba, la comunità stessa ottenne di potersi ufficialmente denominare "serba" (1893). Il revival nazionale dei Serbi triestini non poteva preoccupare le autorità. Il suo referente statuale, la Serbia, era dal 1878 un satellite economico e politico dell’Austria-Ungheria. Tale restò fino al 1903, quando a seguito di un cambio cruento di dinastia cambiò anche, in direzione della Francia, l’orientamento internazionale del piccolo regno. L’embargo commerciale decretato per rappresaglia dal governo austro-ungarico contro la Serbia fu un pesante atto di ostilità; meno carica di conseguenze pratiche, ma assai più di valenze simboliche, fu l’annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908.

Moriva in quello stesso anno a Trieste il ricco negoziante Risto Scuglievich (Škuljević), figlio di Jovan originario di Ragusa. Mezzo secolo prima, nel 1858, l’ultimo dei grandi mercanti illirici immigrati, Michele Vucetich, si era guadagnato memoria imperitura come benefattore della nazione donando una grossa somma per la riedificazione della chiesa[134]. Risto Scuglievich era nato in città nel 1843, era stato educato in Svizzera, aveva ricoperto a più riprese – tanto a lungo quant’altri mai – la carica di presidente della comunità. Per la chiesa molto aveva speso in vita; morendo, le destinò più di metà del suo patrimonio[135], con una componente immobiliare che avrebbe resistito agli sconvolgimenti politici e all’erosione economica. Prezioso per la sopravvivenza istituzionale della comunità illirica, il lascito Scuglievich chiudeva simbolicamente la storia del gruppo serbo-illirico come fattore rilevante nello sviluppo economico della Trieste asburgica.

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  1. Pietro Kandler, Emporio e Portofranco di Trieste, Trieste, 1864, p. 188.
  2. Non unita alla chiesa cattolica, non-uniate.
  3. Bibliografia essenziale: Mita Kostić, Srpsko trgovačko naselje u Trstu XVIII veka, “Istoriski časopis”, V (1954-1955), Beograd 1955; Giuseppe Stefani, I Greci a Trieste nel Settecento, Trieste 1960; Miodrag Al. Purković, Istorija srpske pravoslavne crkvene opštine u Trstu, Trieste 1960; Liana De Antonellis Martini, Portofranco e comunità etnico-religiose nella Trieste settecentesca, Milano 1968; Giorgio Milossevich, Marisa Bianco Fiorin, I Serbi a Trieste. Storia, religione, arte, Udine 1978; Il Nuovo Giorno. La comunità greco-orientale di Trieste: Storia e patrimonio artistico-culturale, Udine 1982; Dejan Medaković, Giorgio Milossevich, I Serbi nella storia di Trieste, Beograd 1987; Marco Dogo, Mercanti fra due imperi, in Trieste e la Turchia. Storie di commerci e di cultura, a cura di Gino Pavan, Trieste 1996.
  4. Le informazioni sulla provenienza e le articolazioni familiari degli immigrati illirici sono per lo più tratte dalla Istorija di M. Al. Purković e dai capitoli scritti da G. Milossevich in I Serbi nella storia di Trieste. Fonti diverse, in particolare archivistiche, saranno indicate.
  5. La versione italianizzata dei nomi è quella corrente nei documenti dell’amministrazione austriaca e del Tribunale commerciale (probabilmente unico è il caso di Jovo Curtovich – in sé un’istituzione nella Trieste teresiana e giuseppina – il cui nome nei documenti viene a volte italianizzato in Giovanni ma più spesso mantenuto nell’originale), nonché nei registri della comunità illirica. Nel carteggio d’affari e negli atti testamentari compaiono a volte firme in cirillico. La traslitterazione latina con segni diacritici, qui adottata tra parentesi, risponde esclusivamente a criteri di praticità.
  6. Espressione ricorrente nei registri della comunità serbo-illirica, di cui si dirà più avanti.
  7. Questi cenni sullo scenario socio-economico bosniaco-erzegovese-dalmato nel XVIII secolo sono tratti dai due capitoli scritti da Radovan Samardžić (Srbi u Turskom Carstvu 1699-1716 e Bosna i Hercegovina u XVIII veku) nella Istorija srpskog naroda, Vol. IV, T. I, Beograd 1986.
  8. Ugo Cova, Commercio e navigazione a Trieste e nella Monarchia asburgica da Maria Teresa al 1915, Udine 1992, pp. 68-71.
  9. Si tratta di un documento dal carteggio del vescovo di Carlstadt Danilo Jakšić con la Aulica Cancelleria Illirica di Vienna, conservato nell’Archivio dell’Arcidiocesi e Patriarcato a Sremski Karlovci, pubblicato per la prima volta da Đorđe Rajković (Pitanje crkve Sv. Spiridona u Trstu, “Letopis Matice Srpske”, 119, 1877, pp. 117-8), ripreso da M. Kostić (Srpsko trgovačko naselje…, cit., p. 176) e riportato per esteso da M. Al. Purković (Istorija…, cit., pp. 26-7).
  10. "Specifica delli Mercanti Illirici di Rito Greco s’attrovano colle loro famiglie e case di Negozio domiciliati nella Città e Porto Franco di Trieste", documento conservato nell’Archivio dell’Arcidiocesi e Patriarcato a Sremski Karlovci e pubblicato integralmente in M. Kostić, Srpsko trgovačko naselje…, cit., pp. 184-5.
  11. Ibid., pp. 178-9.
  12. "Tabella della Nazione Illirica di Ritto Grego Orientale stabilita ed essistente in Trieste sin al 1° di Novembre 1780", Stara Arhiva (l’Archivio della Comunità serbo-ortodossa: SA), I, 171. Le posizioni delle parti in lite sono argomentate in due grossi memoriali dell’aprile-maggio 1780: Archivio di Stato di Trieste (AST), C. R. Governo (CRG), b. 68.
  13. SA, 34, Spisak porodica doseljenih u Trst 1748-1828.
  14. U. Cova, Commercio e navigazione…, cit., pp. 74 ss.
  15. AST, CRG, Naturalisations Protocoll 1786-1809.
  16. Nei documenti della Comunità figura anche come Pero Andrejev e Petar Jandrić.
  17. "Specifica delli Mercanti Illirici…", cit.; "Nota di tutti li Nazionali Illirici, i di cui Bastimenti dall’Anno 1754 fin al dì d’oggi ottennero e rinnovarono la C. R. Patente e Scontrino", C. R. Cancelleria di Verità, 15 settembre 1780, SA, VII, 220.
  18. Ibid.
  19. AST, Intendenza Commerciale (IC), b. 103, Naturalizzazioni 1754-1765.
  20. AST, CRG, b. 68.
  21. "Specifica delle Merci arivate in questo Porto franco dalle Parti interdette del Levante alla Consegna degl’Illirici domiciliati, e non domiciliati…" dal 1° gennaio 1879 al 10 maggio 1780: AST, CRG, b. 68. La dimestichezza della ditta Curtovich con le tortuosità del commercio del Levante emerge da una lettera del 1780 (pubblicata da Traian Stoianovich, The Conquering Balkan Orthodox Merchant, "The Journal of Economic History", XX, 2, June 1960, p. 285), in cui l’internunzio (ambasciatore) austriaco a Istanbul riferisce al suo superiore come un certo Curtovich, mercante triestino residente a Smirne (si tratta di Maksim, nipote di Jovo) gli abbia offerto del denaro per indurlo a sollecitare dalla Porta un firmano di autorizzazione a spedire un carico d’olio da Smirne a Trieste.
  22. Sulla questione, v. M. Dogo, Mercanti…, cit., pp. 10-11, 18-19.
  23. Pierpaolo Dorsi, Trieste e la conquista dei commerci del Levante, in Trieste e la Turchia, cit., pp. 53-6.
  24. AST, IC, b. 103, Naturalizzazioni 1754-1765.
  25. AST, IC, b. 594.
  26. AST, CRG, b. 137.
  27. La differenza fra le due tabelle si può interpretare come segno di soggettiva incertezza, circa il proprio status, da parte di persone che, operando a Trieste da lunga data e come austriaci de facto, non avevano compiuto un passo formale da cui non vedevano discendere conseguenze significative (per esempio il capitano Jancovich e il bottegaio Millassinovich, entrambi bocchesi).
  28. M. Al. Purković, Istorija…, cit., pp. 3-6; M. Kostić, Srpsko trgovačko naselje…, cit., pp. 168-9.
  29. Lettere di Damjan Riznić e Jovan Kurtović allegata alla corrispondenza del vescovo Jakšić con la Aulica Cancelleria Illirica: M. Kostić, Srpsko trgovačko naselje…, cit., p. 176.
  30. M. Al. Purković, Istorija…, cit., p. 27.
  31. M. Kostić, Srpsko trgovačko naselje…, cit., p. 177.
  32. Trascrizione da una supplica all’imperatrice, in M. Al. Purković, Istorija…, cit., p. 33.
  33. Informazioni tratte da Mita Kostić, Srpsko trgovačko naselje na Rijeci u XVIII veku, “Istoriski časopis”, VII, 1957. Molto utile anche Ljubinka Toševa-Karpowicz, Pravoslavno groblje na Rijeci (1720-1856) – Sveta mesta i verski i nacionalni identiteti, “Istorijski časopis”, XLV-XLVI (1998-1999.
  34. AST, IC, b. 63.
  35. "Coscrizione delle famiglie greche, che si scovrino in Fiume, e fassione della loro facultà dell’anno 1785": il documento, conservato nell’Archivio di Stato a Zagabria, è pubblicato integralmente da M. Kostić in appendice a Srpsko trgovačko naselje na Rijeci…, cit.
  36. Quasi tutte professionalmente originarie di Sarajevo, in qualche caso provenienti a loro volta dall’Erzegovina.
  37. SA, 34, Spisak porodica…, Prospetto frammentario della consistenza della comunità 1782-1830.
  38. AST, Tribunale Commerciale e Marittimo (TCM), b. 2498.
  39. AST, TCM, b. 163.
  40. AST, TCM, b. 174.
  41. Giorgio, il maggiore dei tre, si naturalizzò suddito austriaco nel 1800: AST, CRG, Naturalisations Protocoll 1786-1809.
  42. AST, TCM, b. 174.
  43. Su Moschopolis/Muskopol’e/Voskopoje v. A. J. B. Wace, M. S. Thompson, The Nomads of the Balkans. An Account of Life and Customs among the Vlachs of Northern Pindus, London 1914, e T. J. Winnifrith, The Vlachs. The History of a Balkan People, London 1897.
  44. Il bilancio della ditta al 23 aprile 1799 è in un fascicolo intestato a N. Botta in AST, TCM, b. 163.
  45. AST, CRG, Naturalisations Protocoll 1786-1809.
  46. AST, TCM, b. 2498.
  47. Lo scenario e le vicende economico-finanziarie di Trieste dalle guerre napoleoniche alla Restaurazione sono magistralmente trattati in Almerigo Apollonio, Trieste tra guerra e pace (1797-1824). Le contribuzioni belliche francesi, l’attività politica di Domenico Rossetti e i «travagli» della burocrazia austriaca, "Archeografo triestino", S. IV, Voll. LV, 1995 (Parte I), LVI, 1996 (Parte II), LVII, 1997 (Parte III), LVIII, 1998 (Parte IV): una miniera di informazioni e di idee, a cui chi scrive ha attinto probabilmente in modo più ampio di quanto non risulti dalle citazioni esplicite.
  48. AST, TCM, b. 154.
  49. AST, TCM, b. 2499.
  50. AST, TCM, b. 176.
  51. AST, TCM, b. 168.
  52. AST, TCM, b. 2499.
  53. Molto utili a questo proposito le informazioni storiche sui palazzi costruiti o acquistati da mercanti illirici, raccolte in Ortodossi a Trieste. Greci e Serbi nella storia di una città, Assessorato alla Cultura e Civici Musei di Storia ed Arte, Trieste, 1999.
  54. In base alla tabella delle contribuzioni belliche francesi costruita da Almerigo Apollonio nella Appendice D a Trieste tra guerra e pace, cit., Parte IV, pp. 393 ss.
  55. AST, TCM, bb. 155, 160, 174.
  56. AST, TCM, bb. 156, 2499.
  57. AST, TCM, b. 2498.
  58. AST, TCM, b. 2499.
  59. AST, TCM, b. 2498.
  60. AST, TCM, bb. 2498, 2499.
  61. AST, TCM, b. 174.
  62. "Registro di stabilimento…", cit.
  63. U. Cova, Commercio e navigazione…, cit., pp.127 ss.
  64. Diciotto naviganti bocchesi di religione greca si contano nel Naturalisations Protocoll fra 1806 e 1809.
  65. A quel tempo la situazione nel mondo ortodosso balcanico era complessa. Il Patriarcato serbo di Peć fu abolito nel 1766 e le sue diocesi passarono sotto la giurisdizione del Patriarca ecumenico. V. Radovan Samardžić, Srpska crkva u turskom carstvu 1690-1766, in Istorija srpskog naroda, IV, I, cit.
  66. Oltre che dalle carte delle ventilazioni ereditarie, i legami parentali risultano negli atti costitutivi di società dalle dichiarazioni di rinuncia, da parte delle consorti dei soci, a qualsiasi pretesa sul capitale conferito.
  67. AST, TCM, b. 152.
  68. Per un cenno sulla figura di Jovan Miletić, autore del lascito, v. M. Dogo, Mercanti…, cit., pp.16-18.
  69. Compresi alcuni in età prescolare, ai quali veniva impartito il catechismo: AST, CRG, b. 898.
  70. Sul “mecenatismo collettivo” a Trieste e in altre colonie mercantili serbe, v. Milorad Pavić, Srpska književnost i prosvetiteljstvo, in Istorija srpskog naroda, Vol. IV, T. II, Beograd 1986.
  71. La qualità del lavoro di Dositej fu a sua volta certificata dal parroco di San Spiridione con dichiarazione a piè del documento: "Che la suddetta scrittura sia fedelmente, ed esattamente tradotta da parola in parola dal Illirico, faccio fede io Vincenzo Rachich", AST, TCM, b. 174.
  72. Provincia ottomana, governatorato.
  73. Molti di loro erano mercanti, cresciuti sul traffico fra i due imperi. La provincia forniva bestiame da macello (per lo più suini) ai mercati asburgici oltre Sava e Danubio. Belgrado, poi, passaggio obbligato per la carovana continentale, ospitava una multietnica comunità di mercanti ortodossi. L’insurrezione serba del 1804 bloccò il traffico deviandolo sulla route marittima: cfr. B. Krekić, Nekoliko dubrovačkih vesti o Prvom srpskom ustanku, "Istoriski glasnik", 1-2, 1954, p. 210.
  74. M. Kostić, Srpsko trgovačko naselje u Trstu, cit., p. 183.
  75. Mi baso sui valori attribuiti ai conferimenti in conto capitale nel contratto sociale dei fratelli Chircovich nel dicembre del 1805. Applicando la tabella sulla svalutazione del fiorino-carta elaborata da Almerigo Apollonio (Trieste tra guerra e pace, cit., Parte IV, Appendice C, pp. 390-1), il contributo ammonterebbe a circa mezzo miliardo di lire odierne.
  76. Prota Mateja Nenadović, Memoari, Beograd 1988, p.169. Occorrerebbe conoscere i prezzi sul mercato clandestino delle armi alla frontiera austro-turca. Possiamo farcene un’idea alquanto vaga dalla transazione condotta nel 1804 dall’arciprete Nenadović (ibid., p. 70), il quale, non disponendo dei 600 fiorini che gli venivano chiesti per un consistente (ma non precisato) carico di munizioni, aveva saldato in natura il conto con 100 maiali di sua proprietà.
  77. R. Samardžić, Bosna i Hercegovina…, cit., p. 484.
  78. AST, CRG, Naturalisations Protocoll 1786-1809.
  79. A Vienna, durante in Congresso delle grandi potenze, una delegazione serba supplicò intercessione per la gente del pašaluk, che gli Ottomani stavano sterminando a cinquanta al giorno. Da Francesco I la delegazione ottenne due volte udienza e benevolo ascolto; dai funzionari dello zar Alessandro I, sei mesi di inconcludente anticamera e il commento che "[oltre al sultano] anche gli altri imperatori uccidono i sudditi ribelli": dal Dnevnik (Diario) dell’arciprete Nenadović, in Memoari, cit., p. 201.
  80. SA, II, 520, n.621-622. Fra i membri del Capitolo, che sottoscrissero tutti il documento, c’era anche il più volte nominato Drago Teodorovich, personalità eminente nel mondo degli affari oltre che nella comunità. Resta da capire come e perché Drago Teodorovich e suo fratello Pietro si naturalizzassero sudditi austriaci appena nel 1817 (Drago, quindi, poco prima di morire), dopo più di trent’anni di residenza in Trieste (AST, IRG e Luogotenenza, Protocollo di Naturalizzazioni 1815-1892). Forse soltanto la Restaurazione aveva impresso il segno della definitività alla loro scelta triestina?
  81. A. Apollonio, Trieste tra guerra e pace, cit., Parte II, p. 404.
  82. In una specie di censimento dei negozianti insinuati chiesto dal Magistrato Municipale nel 1811 (periodo francese) e facente stato alla fine del 1806, accanto al nominativo Gio. Curtovich fu apposta l’annotazione "Non consta fondo insinuato"! (AST, TCM, b. 202).
  83. Gli Illirici non facevano eccezione. Fra di loro, a lungo non vi fu alcun "negoziante di Borsa"; e nel 1801 risultavano ascritti soltanto Teodoro Mechsa e Nicolò Botta: AST, CRG, b. 668.
  84. L’importanza della Borsa come struttura di rappresentanza del ceto mercantile triestino è probabilmente sovrastimata in M. Cattaruzza, Cittadinanza e ceto mercantile a Trieste: 1749-1850, in Trieste, Austria, Italia tra Settecento e Novecento. Studi in onore di Elio Apih, a cura di M. Cattaruzza, Udine, 1996.
  85. AST, CRG, b. 668, comunicazioni del Gov. alla Deputazione di Borsa, 13 agosto 1805.
  86. A. Apollonio, Trieste tra guerra e pace, cit., Parte IV, p. 284.
  87. Pietro Kandler, Storia del Consiglio dei Patrizi di Trieste, Trieste 1858, pp. 161-2.
  88. A. Apollonio, Trieste tra guerra e pace, cit., Parte IV, pp. 285-6.
  89. A. Apollonio, Trieste tra guerra e pace, cit., Parte III, pp. 291 ss.
  90. A. Apollonio, Trieste tra guerra e pace, cit., Parte IV, Appendice D, pp. 393 ss.
  91. AST, TCM, b. 202, Stato dei negozianti insinuati, ed esistenti o cessati, trasmesso dal Tribunale Cambio-Mercantile al Magistrato Municipale.
  92. AST, TCM, b. 152.
  93. AST, TCM, b. 356, Distinta dei Negozianti insinuatisi sotto il Governo Francese.
  94. AST, TCM, b. 318.
  95. Nel protocollo di ventilazione ereditaria il primo inventario fu fatto in franchi; non soddisfatti delle stime (i bastimenti vi apparivano sottovalutati), e ancor meno dell’irrealistico cambio di 1:1 applicato rispetto al fiorino, gli eredi corressero alcune voci e ricalcolarono tutto al cambio di un fiorino d’Augusta per due franchi e mezzo circa. Ne risultò un patrimonio di 338.241 f.
  96. AST, TCM, b. 357.
  97. AST, TCM, b. 353.
  98. AST, TCM, b. 318.
  99. Tra gli altri, 34.000 fiorini verso Drago Teodorovich.
  100. SA, 34, Prospetto delle nascite e delle morti, Prospetto frammentario delle immigrazioni.
  101. SA, 34, Riscontro della Tabella delle famiglie di Naz.e Slavo-Illiriche di Rito Greco-Orientale domiciliate… sin dall’anno 1748… al 31 dicembre 1821.
  102. AST, TCM, b. 352.
  103. Lo stesso Frussich aveva fato parte della delegazione serba a Vienna nell’inverno 1814-15 (v. n. 79).
  104. Compiuta e distesa descrizione della fedelissima Città e Portofranco di Trieste (Vienna 1824), in G. Agapito, Descrizione storico-pittorica della fedelissima Città e Portofranco di Trieste, Trieste 1972, p. 69.
  105. "Accomandita di Assicurazioni", "Gabinetto di Sicurtà", "Nuova Società Greca d’Assicurazione": AST, TCM, bb. 353, 354, 356, 358, 359.
  106. Giovanni Rajovich, direttore nella "Concordia di Assicuratori"; Nicolò Popovich (figlio dell’armatore Cristoforo), direttore nella "Società Triestina".
  107. AST, TCM, b. 360.
  108. Si trovano in AST, IRG, Generali, b. 1298 e 1299, dei "quartali" o prospetti del movimento dei bastimenti austriaci entrati e usciti dai porti del Levante nel 1830-31, curati dai consoli o agenti consolari in Costantinopoli, Odessa, Ismail, Taganrog, Alessandria, ecc. Particolarmente minuzioso è il prospetto Costantinopoli 1° gennaio – 31 luglio 1830, che per ciascun ingresso in porto fornisce dati su: classe e nome del bastimento, data dello scontrino ministeriale, luogo della costruzione e dell’armamento, portata, cannoni, equipaggio, nome del capitano, nome e patria (nel senso di città, località) dell’armatore, nome e patria del proprietario del carico, data di arrivo, provenienza, carico e suo valore, destinazione, carico e suo valore, data di uscita, eventuali annotazioni.
  109. AST, TCM, b. 361. Gli stessi argomenti furono addotti nella delibera di scioglimento (1832) della "Nuova Concordia d’Assicurazione": AST, TCM, b. 365.
  110. Originario di Risano alle Bocche di Cattaro. All’atto della naturalizzazione, nel 1806, si era dichiarato "navigante" (AST, CRG, Naturalisations Protocoll 1786-1809).
  111. Di cui però solo 466.000 sottoscritti: AST, TCM, b. 366.
  112. La figura di Marco Kuechich è legata alla vicenda della figlia Darinka, che nel 1855 andò sposa, diciannovenne e accompagnata da una dote di 150.000 fiorini, a Danilo I Petrović Njegoš, principe del Montenegro, in seguito assassinato da un avversario politico. Poco dopo le nozze Marco Kuechich morě, e il capitale commerciale-assicurativo familiare si dissolse rapidamente.
  113. AST, TCM, b. 360.
  114. AST, TCM, b. 366.
  115. Giuseppe Stefani, Il Comitato triestino degli Assicuratori marittimi, Trieste 1933.
  116. SA, 6, Zapisnici sednica 1828-1837.
  117. Francesco Basilio, Le Assicurazioni marittime a Trieste ed il Centro di riunione degli assicuratori, Trieste 1911.
  118. Non che gli mancasse esperienza in campo assicurativo: era stato azionista della "Vecchia Rinnovata" fra il 1814 e il 1823, direttore nella "Nuova Società Greca" fino allo scioglimento nel 1830, azionista nella "Nuova Compagnia" dal 1830. In rappresentanza dei negozianti, nel 1833, aveva collaborato alla costituzione del Lloyd.
  119. AST, TCM, b. 366, Estratto della matricola delle Ditte insinuate, 10 maggio 1851.
  120. SA, 8, Zapisnici sednica 1848-1876. Da una lista più ampia, comprendente oltre 500 nominativi di ditte all’ingrosso e al dettaglio, manifatture, "speditori di navigli", cambiavalute, ecc., trasmessa dall’Ufficio di Borsa della Camera di Commercio al Tribunale Commerciale Marittimo nel 1850 (AST, TCM, b. 411), risultavano inoltre attivi gli esercizi di Alessandro Covacevich, Alessandro Cattich, Sp. Gopcevich, Cr. Opuich, Sp. Popovich, Girolamo Scuglievich, anch’essi membri assidui della Confraternità e del Capitolo.
  121. SA, 34, Prospetto frammentario…; SA, 38, Tabella dei Nazionali Illirici domiciliati in Trieste, 1838, 1845.
  122. Basilio Teodorovich e Giorgio Gopcevich, oltre a Demetrio Frussich deceduto quell’anno.
  123. V. al riguardo Marina Cattaruzza, Tra logica cetuale e società borghese: il «Casino Vecchio» di Trieste (1815-1867), in id., Trieste nell’Ottocento. Le trasformazioni di una società civile, Udine 1995.
  124. Ringrazio Marina Cattaruzza per avermi fatto consultare un data base da lei curato (materiali dall’Archivio Diplomatico e dall’Archivio di Stato) sul reticolo associativo nella Trieste ottocentesca.
  125. V. al riguardo Ortodossi a Trieste, cit.
  126. SA, 8, Zapisnici sednica 1848-1876. Per l’organizzazione di aiuti agli insorti, e per un coordinamento politico delle loro iniziative, S. Gopcevich intratteneva rapporti epistolari con Ilija Garašanin, statista serbo, a quel tempo primo ministro del Principato: Dušan Berić, Ustanak u Hercegovini 1852-1862, Beograd-Novi Sad 1994, pp. 248, 270, 327.
  127. Dalla corrispondenza di S. Gopcevich con M. F. Raevskij, l’influente cappellano dell’ambasciata russa a Vienna, in Jugosloveni i Rusija. Dokumenti iz arhiva M. F. Rajevskog 40-80 godina XIX veka, II, 1, Beograd 1989, pp. 229-232.
  128. Il fratello maggiore Spiridione ne fu presidente per una dozzina d’anni, fra il 1836 e il 1864.
  129. Ennio Maserati, Eugenio Popovich d’Angeli tra Italia e Montenegro, in Trieste, Austria, Italia tra Settecento e Novecento, cit.; queste informazioni, come pure le successive, su Drago Popovich, sono tratte dal fondo Popovich presso l’Archivio del Museo di Storia Patria di Trieste.
  130. Il lavoro di M. Purković (Istorija…, cit.), che è interamente costruito sull’archivio della comunità, non fornisce dati al riguardo. I censimenti austriaci non consentono di stabilire con qualche precisione la consistenza della popolazione serba a Trieste, perché nella rilevazione per lingua d’uso essa si confonde nell’aggregato "serbo-croato", mentre nella rilevazione per religione professata si confonde nell’aggregato "Greci orientali non uniti", dal quale la componente greca non è sottraibile perché il greco non è previsto fra le lingue d’uso. Nel 1880, comunque, dichiarano lingua d’uso il serbo-croato appena 126 persone (116 in città, 10 nei sobborghi, nessuna nei distretti rurali). I "Greci orientali" sono 1861 (popolazione complessiva in città, sobborghi, territorio: 144.844). E’ verosimile che una parte dei Serbi triestini dichiarino l’italiano come lingua d’uso. Nel censimento del 1890 (popolazione complessiva 157.466) dichiarano lingua d’uso il serbo-croato 404 persone. Giacché nel frattempo i "Greci orientali" scendono a 1.369 anime, è verosimile che l’incremento dei parlanti il serbo-croato sia dovuto per intero ad immigrazione di istriani e dalmati cattolici. La tendenza si accentua nei due censimenti successivi, mentre i "Greci orientali" si stabilizzano. Oesterreichische Statistik: I. Band, 2. Heft (Wien 1882), XXXII. Band, 3. Heft (Wien 1893); Attilio Frühbauer, Cenni sommari sul censimento della popolazione a Trieste al 31 dicembre 1900. Studio di demografia statica, Trieste 1903 (Tab. IV, Tab.V); Emil Brix, Die Umgangssprachen in Altösterreich zwischen Agitation und Assimilation, Wien-Köln-Graz 1982; Guerrino Perselli, I Censimenti della popolazione dell’Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste-Rovigno 1993.
  131. Così lamentava l’amministratore della scuola L. Aničić nel 1892 (M. Purković, Istorija…, cit., p. 151).
  132. Sui legami culturali dei Serbi triestini con la Serbia e il Montenegro nel corso dell’800 e la loro trattazione storiografica, v. il capitolo “Ricerca storica” in D. Medaković, G. Milossevich, I Serbi nella storia di Trieste, cit.
  133. Dal 1892 il registro della Confraternità viene tenuto in cirillico: SA, 37, Knjiga Bratstva 1862-1961.
  134. SA, 8. Vedi anche M. Al Purković, Istorija…, cit., pp. 135 ss.
  135. Ibid., pp. 181-2.